Velvet Underground, nei sotterranei del rock
I Velvet Underground sono probabilmente il complesso più influente di tutta la storia della musica rock, e certamente degli anni '90. Uno degli aneddoti più diffusi della musica rock (di Brian Eno) è che soltanto cento persone acquistarono il primo disco dei Velvet Underground, ma ciascuno di quei cento oggi o è un critico musicale o è un musicista rock.
Con loro nacquero il rock psichedelico di matrice pessimista (in opposizione a quello ottimista di San Francisco), il raga-rock (il rock influenzato dalla musica classica indiana), il rock decadente (discendente della poesia decadente) e quella che verrà chiamata new wave. Con loro nacque soprattutto uno spirito di far musica (indipendente, eversiva, nichilista) che un giorno sarebbe stato battezzato 'punk'.
La gloria del complesso rimane affidata ai primi due dischi e a un paio di canzoni successive, poche composizioni che cambiarono però per sempre la percezione di cosa fosse la musica. Sebbene quasi tutte le loro canzoni fossero costruite sui tre accordi di chitarra e sul tempo 4/4 usati da tanti altri complessi rock, i Velvet Underground inventarono un'atmosfera "malata", "negativa", decadente che poteva raggiungere livelli intollerabili di paranoia.
I Velvet Underground furono innanzitutto grandi poeti della metropoli. Quell'atmosfera faceva continuo riferimento alla degradazione della vita moderna, all'alienazione urbana, alla disperazione esistenziale. alla solitudine cronica, alla violenza morale e fisica, che erano condivise da un'intera popolazione di moderni "losers".
La musica dei Velvet Underground era claustrofobicamente immersa in ambienti opprimenti. La musica dei Velvet Underground era una medicina per sopravvivere in quegli ambienti. I loro testi inneggiavano alla devianza sessuale e alla tossico-dipendenza più come rituali taumaturgici e catartici che come pratiche edonistiche. La loro musica 'era' quel senso di squallore. Ma era anche grande poesia, che trasformava lo squallore in 'weltanschaung', che trascendeva il milieu del Lower East Side per visioni dantesche in cui inferno e paradiso si confondevano.
I Velvet Underground intonarono sia l'apologia trionfale sia il lamento funebre di questo mondo terribile e seducente. I Velvet Underground furono quasi l'opposto di tutto ciò che furono quegli anni. Il complesso fu estraneo alla canzone di protesta, fu estraneo ai 'flower children', fu estraneo al divismo dei Beatles. Le loro canzoni erano arrangiate in un modo che non era mai stato tentato prima, e talvolta erano puro caos sonoro.
Quelle canzoni avevano poco in comune con il resto della musica popolare perchè, alla fin fine, non erano canzoni: costituivano i reperti angoscianti di un'agghiacciante colonna sonora. A livello semiotico, costituivano 'segni' tramite cui la realtà veniva codificata in suoni: la metropoli veniva ridotta a un rumore pulsante ripetuto all'ossessione; la vita quotidiana veniva ridotta a un delirio inconscio; e tutto, tanto il pubblico quanto il privato, finiva in pura, freudiana libidine: la loro opera è, nel complesso, un gigantesco feticcio sessuale. Quello dei Velvet Underground era iper-realismo urbano, ma filtrato attraverso una mente perennemente offuscata dalle drogate e malata di fantasie perverse. Due scuole storiche della cultura European, espressionismo e decadentismo, si compenetravano, usando come veicoli la pop art di Andy Warhol e il minimalismo appena inventato da LaMonte Young.
La loro musica era un rumore sordo e inquietante che aveva la stessa funzione della musica ritualistica delle popolazioni primitive: l'individuo vi riconosce il proprio ambiente, ne diventa partecipe, ne diventa protagonista.
E al tempo stesso quel suono era una forma di caos visionario, dalle cui nebbie emergeva il miraggio di un mondo migliore, secondo una prassi che era vicina a filosofia hindu e zen. La loro musica aveva un senso del maestoso, anche quando si abbassava ai suoni più abietti.
Sterling Morrison imbracciò la chitarra per imitare i suoi idoli Chuck Berry e Bo Diddley. Alla Syracuse University con l'amico Jim Tucker scoprì i circoli intellettuali e uno studente ribelle, Lewis 'Lou' Reed. Lou Reed era l'enfant prodige di una famiglia ebrea di Brooklyn. A quattordici anni suonava già in un complessino della sua high school (gli Shades) che riuscì persino a incidere un 45 giri ("So Blue", 1957). All'Università studiava letteratura inglese con il poeta Delmore Schwarz, ma passava gran parte del tempo a suonare. A vent'anni, abbandonati gli studi, si arruolò fra gli scrittori di canzoni del Pickwick International (quelli che producono i dischi in vendita nei supermercati) e scrisse "The Ostrich" (per i Primitives, che lui stesso capeggiò).
Nel 1965 Morrison e Reed si incontrarono a New York e formarono i Warlocks con il gallese John Cale, che aveva studiato musica d'avanguardia a Londra ed era arrivato a New York nel 1963 per perfezionarsi alla corte del guru minimalista LaMonte Young, e il batterista Angus MacLise, anch'egli dell'entourage di Young. L'influenza di LaMonte Young sul gruppo fu principalmente quella dei droni della musica Indiana, che divennero un marchio di fabbrica nelle esibizioni dal vivo. Canzoni come "Heroin" e "Waiting For The Man" avevano ben poco in comune con il Merseybeat che stava dominando i media. Sembravano semmai un'esasperazione (tremendamente seria) di "Mr Tambourine Man" di Bob Dylan e delle satire dei Fugs. Su suggerimento del musicista d'avanguardia Tony Conrad, che stava leggendo un libro sul sadomasochismo con quel titolo, il gruppo cambiò nome in Velvet Underground e cominciò a suonare alle 'primè di film sperimentali. Poco prima del natale 1965 MacLise venne sostituito alla batteria dalla sorella di Jim, Maureen 'Moè Tucker (un fatto insolito per quei tempi).
La prima serata, l'11 novembre 1965, si tiene in un college di periferia, ma presto diventano l'attrazione fissa del Cafè Bizarre. Fu Cale a far compiere al loro sound un salto di qualità, dal folk urbano che era in voga a quei tempi a un inclassificabile nuovo genere di folk acido-elettrico. Uno dei primi a rimanere impressionati fu il guru della 'pop art', Andy Warhol, che li tirò fuori dai sottoscala sottoculturali in cui si esibivano e li inserì nei suoi spettacoli totali. Uno dei primi film in cui comparvero s'intitolava "Venus In Furs".
Dell'entourage del suo 'Exploding Plastic Inevitablè faceva anche parte l'attrice e cantante tedesca Nico (Christa Paffgen), chanteuse pallida e fredda, dall'aria di una languida nobildonna mitteleuropea decaduta (giunta in America come compagna di Brian Jones). Nico inietta in quegli show un'atmosfera da cabaret espressionista, tracciando in tal modo un'inquietante parallelo fra la Berlino anni '30 e la New York anni '60. Al complesso viene invece affidato il compito di suonare la colonna sonora per le allucinanti coreografie e gli spettacoli di luce, e fu così che i Velvet Underground impararono a produrre.
Warhol si circondava di un popolo di diseredati, estratto dai bassifondi di New York, un popolo di teppisti, prostitute, omosessuali, drag queen e drogati che diventa il protagonista delle canzoni dei Velvet Underground.
L'esordio dei Velvet Underground con Nico avvenne nel febbraio del 1966 al "Cinematheque", ma la prima esibizione ufficiale dello show multimediale di Andy Warhol si ebbe in primavera al "DOM Theatre". A maggio il carrozzone di attori, cineasti, ballerini e musicisti, si mise in viaggio per una tourneè che avrebbe portato le loro esibizioni di perversione e depravazione fino alla West Coast.
Sulla scena la parte musicale finì col fondersi: Nico entrò stabilemente a far parte dei Velvet Underground e il sound del gruppo si formò dalla mutua interferenza delle esperienze musicali dei cinque componenti: l'esistenzialismo metropolitano di Reed, la musica d'avanguardia di Cale, il primitivismo della Tucker, il "verfremdung" di Nico, il rock and roll di Morrison. Ovviamente l'iper-realismo di Andy Warhol impresse una direzione preferenziale ai loro spunti.
Le loro fonti musicali andavano dal cabaret espressionista di Berlino (Brecht/Weill in particolare) alla canzone anarchica e proletaria di Parigi, dall'avanguardia minimalista di LaMonte Young al folk-rock psichedelico dei Byrds. Ma i Velvet Underground avevano poca o nulla soggezione nei confronti della tradizione e poca o nulla paura di sperimentare. Nel loro repertorio entrarono subito la distorsione, il feedback, i droni della musica orientale, le scale mediorientali, il mantra, il raga, l'improvvisazione del free-jazz, i ritmi tribali dei pow-wow pellerossa e del folk africano.
Reed era un amante del free-jazz che ascoltava i dischi di Ornette Coleman, John Coltrane, Don Cherry, Albert Ayler. Cale era l'esperto di musica d'avanguardia. Sterling era il rocker. Non era mai esistito un complesso più eterodosso.
I Velvet Underground furono fra i primi complessi che concepirono la musica rock come arte creativa, e non come prodotto commerciale da vendere nel formato del disco a 45 giri. I Velvet Underground furono fra i primi complessi che mostrarono totale disinteresse per le classifiche di vendita. Il fine della loro musica era di trasmettere emozioni, esprimere disagio, comunicare all'interno del proprio ambiente. I primi album dei Velvet Underground erano innanzitutto esempi di libertà creativa: il complesso scriveva ciò che voleva, lo arrangiava come voleva e lo suonava come voleva. L'unica regola del gruppo era di non suonare blues, perchè c'erano troppi complessi influenzati dal blues.
I Velvet Underground inventarono dal nulla una morbosa poesia del teppismo, dell'alienazione, dell'erotismo perverso, del decadentismo alto-borghese, dei turpi riti nascosti nella metropoli. Scavarono nei meandri del vizio riallacciandosi alla grande tradizione francese di De Sade e di Baudelaire; denudarono la desolazione della vita moderna, la frustrazione degli abitanti delle rovine tecnologiche, le tenebrose ambiguità della "dolce vita" del ceto medio. Tanta malsana ispezione nella degradazione dei costumi sfociò in canzoni d'atmosfera e in lunghi deliri alterati da un sound al limite dell'udibile; in questi incurabili ascessi sonori i Velvet Underground si rivelarono primi radicali profeti dell'improvvisazione, della dissonanza e dell'"assordanza" rock.
Sul primo album, The Velvet Underground And Nico (Verve, 1967), registrato in due giorni nella primavera del 1966 durante la tourneè californiana, sotto l'egida di Tom Wilson, e uscito nel gennaio dell'anno successivo, compaiono i protagonisti di quelle leggendarie fantasmagorie musical-teatrali. Andy Warhol produce l'album e disegna sulla copertina una delle sue banane, il simbolo fallico assurto col tempo a suo marchio di fabbrica. Nico, monella perversa, angelo tenebroso, emette sordi lamenti teutoni, elegante e sinistra, fatale ed elusiva, in tono neutro e vissuto. Reed compone le melodie e scrive i testi, atroci squarci delle angosce dei bassifondi, un'infernale commedia sulla miseria morale dell'umanità notturna: rovina e desolazione, solitudine e paranoia, la bellezza e la salvezza solamente nel male. Cale arrangia il suono e l'atmosfera con un'infinità di trucchi, dal rumore nudo e crudo all'uso sottilmente perverso e seducente di uno strumento esotico come la viola (che vibra di continuo sulle note più stridenti), e impartisce a tutti lezioni di avanguardia elettronica e ripetitiva. Maureen Tucker picchia con forsennato isterismo, disperata e ossessiva (ma anche sottilmente esotica, anche marziale, anche imitazione di tamburi africani e di gong orientali), fornendo, insieme con le tastiere e la viola di Cale, una costante base pulsante che rappresenta forse l'innovazione più rivoluzionaria del disco.
Il viaggio nei bassifondi della decadenza si apre con il paradiso autunnale, il freddo paesaggio lunare di "Sunday Morning" (che doveva essere cantanta da Nico ma all'ultimo momento venne registrata da Reed con voce effeminata), tenue fiaba raccontata da una fata maledetta con infinita accorata nostalgia con un ritornello sospeso nel vuoto che si avvolge su se stesso all'infinito in un fitto tintinnio metallico.
Da un lato ci sono le spettrali melodie per voce femminile, i lied da camera che Nico canta con voce ambigua su un accompagnamento minimo: la visione fumosa di una Femme Fatale in depravati bistrò parigini, intrisa di spleen delicato bisbigliata da una Nico angelo del male e malinconica dannata; la visione funerea di "All Tomorrow's Parties", che suona come un cerimoniale di fantasmi e vampiri votati al sacrificio collettivo (nonostante il testo fiabesco), debosciata apoteosi di un'orgia cantata con distacco enfatico dall'anfitrione Nico; e l'improvvisa tenera serenata di "I'll Be Your Mirror", Nico innamorata infida come una strega travestita da principessa.
Nell'angolo opposto rantolano le repellenti confessioni maschili: la sfrontatezza oscena, il martellante bisogno allucinogeno di "Waiting For My Man" (espressione riferita allo spacciatore di droga), il primo poema da marciapiede 'reediano', e il boogie supersonico che per la prima volta sperimentò la tecnica della pura percussività di tutti gli strumenti; l'incubo sado-masochista in giardini orientali di "Venus In Furs", uno dei capolavori della musica rock, un madrigale lascivo che ondeggia spaventoso fra vita e morte, il fatalismo epico di Bob Dylan sposato allo sfascio morale dei film noir, pianto liberatore ed efferate sevizie, cupo affresco di libidini tormentate cantato da Reed in tono disperato e accompagnato da Cale con una viola tesa allo spasimo fino a imitare le cornamuse con tam tam buddisti a ritmo da processione religiosa; il caos demoniaco di "Black Angel's Death Song", litania eretica declamata da Reed come facevano i poeti beat (e con linguaggio visionario altrettanto beat).
E sovrastano ogni altra desolazione le due lunghe elucubrazioni elettriche, il delirio psichedelico di "Heroin", evocazione allucinata di un trip catartico, crescendo percussivo con punte di vertigine, sballo orgasmico al di fuori di ogni codice armonico (tam tam tribali, viola scorticata, chitarre jingle-jangle); in fondo a tutto il carnevale rumoristico di "European Son" (dedicata al poeta Schwarz e influenzata dal free-jazz di Ornette Coleman), con Cale e la Tucker scatenati nel produrre il massimo frastuono possibile, otto minuti di distorsioni e percussioni maniacali.
Il disco, completato da due stranianti canzonette alla Merseybeat, "Run Run Run" e "There She Goes", è perfetto sotto tutti i punti di vista e si può collocare tra i capolavori del teatro musicale espressionista, al fianco (e nettamente sopra) dei 'Pierrot lunairè e di Weill. Dalla perfetta fusione di musica e parole scaturisce un pathos che cattura la realtà metropolitana nelle sue più segrete e deprimenti pieghe, un affresco atroce e cupo dell'umanità moderna, celebrazione poetica e documentaria della vita di strada nei bassifondi (sulla falsariga del cinema-verità), amplificata attraverso la lente deformante della droga. Feticci sessuali e sadismi catartici, orgasmi latenti e rumori snervanti; il vivo contrasto fra i modi suburbani di Reed e quelli patrizi di Nico, la Berlino anni '30 e gli slum anni '60, la sottocultura della crisi e quella dell'apocalisse. Il fascino del disco deriva dalla quantità di idee in esso profuse e dall'amalgama di tanti forti personalità artistiche, fra le quali è certamente Reed il catalizzatore, il regista.
L'impatto con il mondo esterno fu traumatico: la carica innovatrice di testi e musica creò intorno a loro un clima misto di stupore e di ostilità, anche da parte di frange intellettuali che scorgevano in loro pericolose tentazioni decadenti. Il complesso, ripudiato da New York, si trasferì di fatto a Boston.
Il secondo album, White Light White Heat (Verve, 1967), venne realizzato dai soli Velvet Underground, dato che Nico e Warhol avevano deciso di proseguire per le loro strade, e in un solo giorno, dopo una serie di concerti fallimentari a teatri vuoti. Il disco accentua il lato sperimentale del primo album, in particolare concentrandosi in minimalismo e cacofonia a discapito della melodia.
Scomparse le atmosfere sfumate e il tono tormentato di Nico, hanno più spazio a disposizione il colloquiale delirante di Reed e gli esperimenti radicali di Cale. I brani si allungano a dismisura, sovrastati da una comune cupa monotonia (senso di impotenza e claustrofobia), lacerati dalle distorsioni chitarristiche e seviziati dai turpiloqui demenziali. Sono jam free-form di feedback, olocausti iper-disgreganti che collassano ad un livello bassissimo di emotivita'. La solitudine nel clamore della grande metropoli offre lo spunto emotivo per fantasie macabre. Caos metropolitano e caos mentale, disperazione, paranoia, ossessione di morte, turbolenze del subconscio: i Velvet Underground penetrano con decisione nelle fibre più dolorose della psichedelia e della psicanalisi.
L'iniziale title-track, con il suo attacco trascinante e l'incedere martellante, è il brano che porta alla perfezione il loro boogie ipnotico fortemente percussivo, il genere di baccanale forsennato sperimentato in "European Son". È anche l'unico brano del disco, con il mantra "Here She Comes Now", che ricordi la struttura della forma-canzone. Viceversa la devastante danza tribale "I Heard Her Call My Name", la sarabanda più epilettica, la claustrofobica "The Gift" (un parlato colloquiale sull'amorfa improvvisazione strumentale lacerata dalle distorsioni chitarristiche) e la dilatata e indianeggiante "Lady Godiva's Operation", sono cavalcate allucinate senza inizio e senza fine, lacerate dalle stecche monumentali di Cale, che potrebbero continuare in eterno la loro lugubre nenia sulla pulsazione frenetica e perenne di Tucker.
Sono le premesse a "Sister Ray", assordante messa nera sillabata da voci e strumenti in trance, forse il massimo capolavoro dell'intera musica rock. L'epico serpente si snoda per diciassette minuti senza un attimo di pausa, con un lavoro martellante di batteria (e Maureen Tucker ha tutto il diritto di proporsi quale miglior batterista della storia del rock), un fraseggio distorto e sibilante di chitarra fatto di assalti veementi e di mormorii sommessi in contrappunto, con il continuo martirio elettrico di Cale, con la voce spiritata lancinante e balbuziente di Reed, epilettico ed indemoniato. La tremenda percussività in accelerazione e gli spasimi di nevrosi che la squassano da cima a fondo raggiungono livelli sonori e intensità emotive mai lambite dalla musica. Il serpente si snoda come un lungo sabbah, una danza rituale, un happening di auto-distruzione collettiva, nell'eruzione continua di conati osceni, di tremiti psicopatici, di violenze perverse, di deliri ossessivi; una montagna pulsante di suoni che deflagra in tutte le direzioni, un uragano dissonante allo stato brado di tale violenza da sradicare l'intera civiltà musicale: tripudio drammatico di esasperata angoscia, mistica anarchica di liberazione degli istinti primitivi, seduta psicanalitica, espansione della coscienza, scrittura automatica, ode al caos del metropoli, inno alla pazzia universale.
Il successo di pubblico era inversamente proporzionale alla grandezza artistica del disco. La colpa non era tanto dei testi volgari di Reed, visto che ormai certi tabu' erano stati infranti un po' da tutti, quanto dell'accanita sperimentazione di Cale. La conseguenza è che nel 1968 Reed estromise Cale dal complesso.
Nella musica del terzo disco, Velvet Underground (Verve, 1969) Reed elimina del tutto le asprezze del loro sound e viene a mancare lo sperimentalismo di Cale. Frenata anche la foga ciclonica di Moe Tucker, non rimane molto dei Velvet Underground. Non che le canzoni sofisticate di questo album siano insignificanti: "Pale Blue Eyes", la più tenera del lotto, è contrappuntata da note sacre d'organo e tocchi classicheggianti di chitarra; nella lentissima "Candy Says" il nuovo bassista Doug Yule imita il canto fiabesco di Nico e lambisce la stasi assoluta; l'incalzante "What Goes On" si libra in un crescendo vertiginoso di chitarra e di organo e costituisce il suo estremo saluto alla civiltà dell'acido; "Some Kinda Love" è una ballata blues scarna e dimessa, giocata sulle inflessioni torbide del canto di Reed. Al tribalismo nevrotico dei capolavori rimanda "Beginning To See The Light", e un po' di suspense la regala la lunga "The Murder Mystery".
Il doppio Live (Mercury, 1974) mostra in realtà un complesso ben più agguerrito, che continua gli esperimenti di Sister Ray spingendoli ai limiti di ciò che un giorno si chiamerà 'musica industrialè. Le chilometriche versioni di "What Goes On" e "Ocean" (apoteosi della batteria allucinogena di Moe Tucker), e il puro rock and roll di "Sweet Bonnie Brown" restituiscono dignità anche a questo periodo, mostrando che il cinismo di Reed non aveva ancora sterilizzato del tutto gli orgasmi del gruppo.
E altri nastri di registrazioni dal vivo testimoniano dell'atmosfera raccolta, funerea e demoniaca in cui si svolgevano tuttora i loro perversi cerimoniali sonori, con Reed nei panni dello sciamano depravato che gode e corrompe, la voce libidinosa che incalza, la ritmica ossessiva, un senso opprimente di paranoia e claustrofobia.
Nastri riportati alla luce nel 1986 hanno rivelato ancora la satanica jam blues strumentale "I'm Gonna Move Right In", lo strumentale surf "Guess I'm Falling In Love""Hey Mr Rain", con improvvisazioni di viola, e "Ferryboat Hill", dal demenziale arrangiamento.
Lou Reed è di fatto l'unico membro originario su Loaded (1970) che, per molti versi, è il suo primo album solista. Reed ha voglia di fama e di soldi e scrive le canzoni più facili dell'intera carriera del complesso, in particolare "Sweet Jane" e "Rock And Roll". Sono canzoni che faranno delirare una star della musica leggera come David Bowie.
In compenso la loro popolarità continuava a crescere, tanto che furono loro a inaugurare il neonato "Max's Kansas City" (destinato a diventare il quartier generale della new wave), con uno show replicato per più di due mesi.
Maureen Tucker, ormai inutile nel nuovo contesto, lascia il complesso (o viene estromessa) e scompare per anni nel nulla. L'ultimo concerto di Lou Reed con i Velvet Underground si tenne il 23 Agosto 1970 al Max's.
Squeeze (Polydor, 1973) venne registrato da un gruppo che non aveva nulla a che spartire con i Velvet Underground.
Negli anni '70 Nico, Lou Reed e John Cale diventeranno grandi cantautori, l'una leggendaria sfinge del rock, il secondo anticipatore del glam-rock e del rock decadente, il terzo padrino persino della new wave.
Sterling approfittò dello scioglimento per riprendere gli studi universitari (in letteratura medievale alla University of Texas di Austin), ma finirà per guadagnarsi da vivere come capitano di 'tug-boats' nel canale di Houston. Morrison suonerà brevemente con i texani Bizarros.
Tucker, sposa e presto madre di ben cinque figli, seguì il marito prima in California e poi in Arizona. Divorziata, si trasferì in Georgia e lavorò come cassiera in un grande magazzino. Tornerà sulle scene negli anni '80 con il singolo "Will You Love Me Tomorrow" (1982) e l'album Playing Possum (Trash, 1981), che contiene per lo più cover, entrambi registrati nella sua living room. Con l'aiuto di Jad Fair degli Half Japanese, nacque poi l'EP MoeJadKateBarry (50 Skidillion Watts, 1986), di nuovo dedicato per lo più a covers. Con l'aiuto di Lou Reed la sua carriera venne finalmente resuscitata e uscì l'album Life In Exile After Abdication (50 Skiidillion Watts, 1989), finalmente una raccolta di materiale originale (con diverse canzoni dedicate ad amici dell'epoca d'oro) seguite da I Spent A Week There (Rough Trade, 1991) e Dogs Under Strees (Sky, 1994). Ma l'EP Grl-grup (Lakeshore Drive, 1997) e il singolo "I'm Sticking With You"/ After Hours" (Lakeshore Drive, 1997) saranno di nuovo dedicati a covers (quelle del singolo sono di Reed).
L'enorme fama postuma del gruppo, soprattutto negli anni '90, riporterà alla luce diverso materiale inedito. Nel 1990 ci sarà persino una reunion in Europa. Dopo tanti anni di rancori Reed e Cale collaboreranno in A Songs For Drella (1989). Live MCMXCIII (Warner Bros, 1994) è la registrazione di un concerto francese della ricostituita line-up originale. Nel 1994 Tucker, Morrison e Cale suoneranno dal vivo all'Andy Warhol Museum.
L'intera opera in studio è stata raccolta sui cinque dischi del box-set Peel Slowly And See (Polydor), che offre gli original mix del primo e del quarto album (oltre a un'ora di nastri inediti della prima ora).
The Quine Tapes (Polydor, 2001) box di tre CD registrati nel 1969 da un giovane Robert Quine xhe include tre epiche versioni di "Sister Ray".
Sterling Morrison morirà di cancro nell'agosto del 1995 (un giorno dopo il suo 53esimo compleanno).
Angus MacLise, genio pazzoide della New York underground degli anni '60 che fu il primo batterista dei Velvet Underground, ebbe forse la vita più turbolenta e creativa del gruppo: sposatosi nel 1967 con una giornalista hippy di San Francisco (il matrimonio venne officiato da Timothy Leary in persona), titolare di una Tribal Orchestra a New York, morì a Katmandu nel 1979, dove era diventato poeta e pittore. L'opera musicale di MacLise è quasi interamente raccolta su The Invasion Of Thunderbolt Pagoda (Siltbreeze, 1999), che contiene l'intera colonna sonora dell'omonimo film d'avanguardia (1968) e altre piece per piccolo ensemble raga-psichedelico-minimalista, Cloud Doctrine (Sub Rosa, 2003).