Tosca, tra azione e lirismo
A sottoporre a Puccini La Tosca (1877) di Sardou come soggetto per un’opera era stato il suo primo librettista, Ferdinando Fontana, nel 1889, quando il maestro apportava gli ultimi ritocchi a Edgar. Il progetto era poi caduto, e nel periodo in cui Puccini scrisse Manon e Bohème a interessarsi al soggetto e a stipulare un contratto con Ricordi per Tosca fu il barone torinese Alberto Franchetti. Nell’autunno del 1894 Franchetti e il librettista Illica si recarono a Parigi per discutere con Sardou. A uno di quegli incontri presenziò Verdi, che si trovava a Parigi per la prima di Otello ed era amico del drammaturgo. L’anziano maestro, entusiasta del libretto (era rimasto impressionato in particolare dal monologo di addio alla vita e all’arte di Cavaradossi) giunse a dichiarare che egli stesso lo avrebbe volentieri messo in musica, se a impedirglielo non fosse stata l’età troppo avanzata.
Puccini tuttavia tornò a interessarsi alla Tosca nel 1895, quando stava ultimando La bohème, e Giulio Ricordi non si fece troppi scrupoli a indurre Franchetti a rinunciare all’opera per affidarne la realizzazione al proprio compositore prediletto. A Illica (Puccini lo considerava un insostituibile sceneggiatore, ma non ne gradiva la qualità della versificazione e la mancanza di senso della misura) venne affiancato Giuseppe Giacosa, ricostituendo così il team vincente della bohème. A Giacosa però non piaceva il soggetto, che considerava inadatto alla musica: «Non è buon argomento per melodramma. [...] Il guaio più grave sta in ciò che la parte, dirò così, meccanica, cioè il congegno dei fatti che formano l’intreccio, ha troppa prevalenza a scapito della poesia. È un dramma di grossi fatti emozionali, senza poesia». In effetti dopo aver intuito con Manon Lescaut (1893) e compiutamente realizzato con La bohème (1896) un’idea di opera dai toni lirico-sentimentali e dalle apparenze leggere – nello spirito dell’opéra-comique, più che del grand-opéra – Puccini con Tosca (1900) sembra aver voluto ricreare i propri presupposti drammaturgici tornando a una vicenda basata su situazioni non più giustapposte ma concatenate e sul confronto di personaggi nell’ambito di un’azione serrata e lineare, in cui si esaltano passioni elementari e si esaspera la tensione emotiva. Un’idea di dramma più vicina alla tradizione di ascendenza verdiana ereditata dal teatro verista, ma affrontata con inedita sottigliezza e con un’insolita caratterizzazione di personaggi dagli ambigui profili psicologici. La drammaturgia della successiva Madama Butterfly (1904) – imperniata sull’evoluzione psicologica di un unico personaggio – avrebbe confermato l’immagine di un autore che, di opera in opera, ricrea continuamente i propri presupposti poetici (atteggiamento che, ne fosse egli consapevole o meno, colloca Puccini in una dimensione di pensiero propria dell’arte novecentesca).
Tosca andò in scena al Teatro Costanzi di Roma il 14 gennaio 1900, alla presenza della regina Margherita, e fu accolta con disorientamento da pubblico e critica. Sull’opera è sempre pesato l’equivoco di un presunto sbandamento di Puccini in direzione verista. Ma la scelta di una drammaturgia più lineare e la ricerca di una pregnanza espressiva che si traduce in una maggiore tensione della vocalità non dovrebbero far passare in secondo piano gli elementi di continuità con i precedenti successi di Puccini (il personale ricorso a Leitmotive nell’uso di “reminiscenze logiche”, la costruzione melodica “a mosaico”, la correlazione tra i nuclei motivici, l’uso simbolico dei piani tonali) rispetto ai quali i materiali musicali si presentano se mai ulteriormente affinati per caratterizzare psicologie complesse. È vero che la riduzione librettistica – sovrappesando la vicenda sentimentale, più consona alla sensibilità di Puccini, rispetto allo sfondo storico – riduce il personaggio di Cavaradossi a una tenorile genericità, privando anche il monologo del terzo atto della primitiva dimensione etica (se Mario “muore disperato” è solo perché non vedrà più la donna amata: con fiero disappunto di Illica, fervente repubblicano). In compenso balza in primo piano Scarpia, sensuale e devoto, efferato e aristocraticamente distaccato: un eroe negativo dall’ambiguità non meno che affascinante, per quanto troppo spesso elusa in interpretazioni grossolane e riduttive. In Scarpia, il più rilevante baritono pucciniano, viene rappresentata l’emozione erotica nella sua dimensione patologica: un tratto – come sottolinea Mosco Carner – tipico dell’arte fin de siècle, del periodo in cui viene messa in luce l’incidenza dell’inconscio e in cui «si scoprono il brutto, la malattia fisica e psichica e l’anormalità come fertile terreno d’arte».
Enrico Maria Ferrando (da www.sistemamusica.it)