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Teoria della «maxime». Da La Rochefoucauld a Chamfort

 

Tre sono stati i punti in cui si è articolata la comunicazione: condizioni di produzione e di ricezione della maxime; descrizione della retorica discorsiva della maxime; evoluzione della maxime.
Le Maximes di La Rochefoucauld hanno avuto una fortuna straordinaria: quest’opera ha fondato un genere (evento molto raro, perché i generi sono di solito ideali, non si realizzano appieno in un determinato libro-prototipo), volutamente, con piena consapevolezza dell’autore. Un genere immediatamente percepito come tale: l’opera fu subito accettata dal pubblico francese, e ben presto letta e tradotta in Europa, dove le massime circolarono anche senza padrone e vennero largamente imitate.
1. A monte dell’opera di La Rochefoucauld ci sono lasciti culturali dell’Umanesimo e del Rinascimento, in particolare il gusto pronunciato per la citazione d’autore che debitamente trasformata, per essere più incisiva e di più facile memorizzazione e ripetizione, diventa sentenza. Accanto a ciò, nella letteratura francese ‘alta’ c’era la predilezione per l’enunciato breve (anche di nuovo conio), assunto come guida di comportamento, persino segnalato nella memorialistica con segni tipografici, e l’abitudine quasi quotidiana delle raccolte di florilegi personali per la riflessione individuale; il gusto per la citazione diventò esagerato quando essa giunse a costituire una parte importante del discorso argomentativo. La letteratura mondana, poi, influenzata dal Cortegiano e dagli intellettuali italiani, coltivava la frase ben tornita (il bon mot) affiancata alla successiva autorità di Gracián (l’agudeza era destinata a soppiantare Castiglione). Del resto, nella letteratura divulgativa si assiste a una grandissima produzione di proverbi o sentenze non scevri di cultura (adattamenti in ultima analisi dei Disticha Catonis e dei Proverbia Senecae: l’autore di pensieri morali non cerca l’originalità, ma l’efficacia). Oltre a questo comune retroterra europeo, in Francia si aggiunge l’effetto della Controriforma e dell’Editto di Nantes, per cui da parte cattolica nasce l’esigenza di combattere i protestanti colti con argomentazioni altrettanto efficaci (non solamente le Provinciales di Pascal): si stampano libretti in dodicesimo in quantità enorme (un «diluvio» di 100.000 copie per testo, in certi casi), florilegi di florilegi o di sentenze nuove, raccolte di pensieri, destinati alle donne (ad esempio, per conoscere la Bibbia, la cui lettura diretta in ambito cattolico era sconsigliata) o ai borghesi medi, perseguendo con consigli e regole l’ideale dell’indottrinamento e dell’utile dulci (Nicole, uno dei pensatori di Port-Royal, spezzettò i suoi Essais de morale in brevi riflessioni, per poi ricomporli in forma di trattato solo successivamente). Non è da dimenticare l’estetica della grandeur, che inizia sotto Luigi XIII e persegue la ricerca del monumento, atto a rimanere perenne, con forte valenza simbolica, attraverso gli elementi ripetitivi e solenni che restino nella memoria, disposti in serie, senza un inizio e una fine ben visibili (i lunghi colonnati e la successione delle finestre del Louvre, la melodia del Te Deum di Delalande, i motti nelle medaglie di Luigi XIV).
Il culto della parola appropriata al destinatario ideale tocca il culmine nella seconda metà del Seicento, grazie anche alla politica linguistica molto coercitiva del cardinale Richelieu, che fonda l’Académie Française sorvegliandone la produzione linguistica, indicando una norma, senza imporre però una teoria in appoggio (affidando l’applicazione della norma a osservazioni individuali, in modo che tutti partecipassero alla teorizzazione). La forma breve fu favorita dalla semplificazione della sintassi e dall’impoverimento della semantica, impositivo (alcuni vocaboli vennero proibiti) e tendente alla solennità (i termini ‘permessi’ diventarono assai polisemici).
Accanto a questi elementi estetici, non va dimenticata l’educazione all’ascolto interiore, all’analisi psicologica, intesa non come etica normativa, ma come descrizione: una tendenza che proviene da Montaigne, che osò parlare di sé stesso, ma nella quale giocarono un ruolo fondamentale la spiritualità francese, per cui solo conoscendo sé stessi si poteva raggiungere il miglioramento dei costumi e la salvezza, e la cultura mondana di descrizione (l’Astrée di Honoré d’Urfé e i romanzi di Madeleine de Scudery erano costellati di interrogazioni e disquisizioni sin troppo sottili sui comportamenti dei protagonisti); inoltre non va trascurata la codificata conversazione orale, riguardante la riflessione sui comportamenti. Questa cultura mondana, in cui per ore si dibatteva in pubblico questioni di carattere sentimentali o emozionale (ad esempio il gioco sulle questions d’amour), preparò il terreno alla maxime e tenne testa alla cultura erudita e a quella religiosa: l’honnêt homme è più intellettuale del cortegiano ed è plasmato dai politici della cultura, che sorvegliano lo sviluppo sia dei temi sia della lingua.
2. La maxime diventò per un lungo periodo un genere di primo piano in Francia, costituendo l’espressione ideale per illustrare la riflessione dell’uomo sull’uomo. Venne rovesciato il potere delle auctoritates (parola di un’autorità, che proveniva in prima istanza dalla nobiltà delle origini a cui univa ornatus, abbellimento, e probatio, argomentazione indiscutibile), perché la maxime si impose quale autorità della parola, in quanto l’assunto si arrogava autorevolezza dal punto di vista argomentativo in ragione delle sue capacità espressive e non per la sua provenienza. Nella maxime è la forma a guidare il pensiero e non l’inverso: la paratassi permette una comprensione semplificata dell’enunciato (in vista dell’uso orale e della memorizzazione); La Rochefoucauld usa mezzi retorici alquanto scontati e ripetitivi, come la bipartizione, riguardante le facoltà espressive e la materia concettuale (definiendum e definiens posti in equivalenza) costituita da un’assiologia di un valore riconosciuto affiancata da un’esposizione di una visione possibile, non innovativa in campo filosofico, ma tuttavia polemica (un esempio: «L’amicizia non è che uno scambio di piaceri»). Questa bipartizione retorica, gradita all’oralità e che suggerisce la schema domanda-risposta, soddisfa la già quintilianea rotunditas, l’esigenza cioè da parte dell’enunciato di autonomia da ogni contesto e di chiusura su di sé (un mi-chiedo-e-mi-rispondo, in definitiva), assicurata anche da parallelismi, chiasmi, antitesi, poliptoti, similitudini, paragoni («Promettiamo secondo le nostre speranze e manteniamo secondo le nostre paure», «La gelosia nasce sempre con l’amore, ma non muore sempre con esso», «Il ridicolo disonora più che il disonore»). Si incontrano inoltre ripetizioni delle medesime figure e schemi espositivi con ruolo stabilizzatore, di contenimento del discorso all’interno dell’enunciato (ad esempio, paradossi inseriti in un parallelismo, così da poterli dominare: «L’avarizia si oppone all’economia più che la liberalità», «La debolezza si oppone alla virtù più del vizio»).
3. La Rochefoucauld ha fondato l’economia metrica del pensiero con cui fa i conti tutta l’aforistica moderna. La maxime è diventata una forma fissa, come il verso alessandrino: ci fu una produzione torrenziale di paraletteratura francese posteriore, spesso indegna di essere studiata; e non si tralasci il fatto vitale della parodia, che deride il vuoto della forma fissa, ad esempio attraverso una paronomasia, che mantiene il valore fonico di una maxime mostrandone però la possibile sterilità concettuale. Un genere, la maxime, comunque in evoluzione: esperienze come quelle di La Bruyère o di Chamfort evidenziano come la massima poteva cambiare restando nell’economia metrica del pensiero. Il primo ha scritto massime morali suddivise in capitoli, per argomenti (dalla letteratura alla religione, delineando un percorso logico-esistenziale): procedimento impensabile per La Rochefoucauld, che numerò i suoi pensieri semplicemente da 1 a 504; come del tutto diverso è lo stile, perché in La Bruyère non si verifica più l’incontro tra la proposta generale e quella personale: con «Voler dimenticare qualcuno è pensarci» non si definisce un valore, ma un comportamento, secondo la discrezionalità autoriale, che usa non la manichea antitesi, ma la più conciliante antifrasi. Chamfort, autore del primo libro della letteratura aforistica moderna, non presenta né valori né comportamenti, ma una casistica, in un’epoca in cui è tramontata ogni speranza nel valore della parola; pur essendoci ancora alcune massime di forma classica, le sue definizioni sono scardinate da riserve attraverso incisi che introducono il relativismo, assente in La Rochefoucauld, e i parallelismi non creano più la rotunditas. Chamfort inaugura l’epoca in cui il soggetto che gestisce questa parola assoluta (l’aforisma) deve mostrare sé stesso e le proprie convinzioni, non essendo più la parola l’espressione di una legge generale.

 

Giancarlo Bettin