Tchaikovskij e Stravinskij, due personalità, un’idea
Se fosse possibile stilizzare un’esistenza intera nel disegno di un solo gesto, niente saprebbe meglio riassumere le opposte personalità di Tchaikovskij e di Stravinskij come la Sinfonia op. 13 da un lato e Le Sacre du printemps dall’altro.
La Sinfonia n. 1 di Tchaikovskij evidenzia la compostezza classica della concezione, l’esigenza di controllo che si riafferma con rigore anche nei passaggi più esuberanti (per esempio nel finale) e infine il bisogno di un baricentro chiaro che si traduce nell’adozione di un tema popolareggiante che apre il brano e ne diventa quasi la sigla, attraversando il primo movimento con la dinamica ricorsiva del sogno. Al tempo stesso, al di sotto di questa superficie, possiamo trovare riassunto in poche istantanee tutto il tormento che lacerava Tchaikovskij e che a lungo egli cercò di tenere lontano dalla sua musica: l’autore ventiseienne che consegna la partitura della Sinfonia ai suoi insegnanti di Conservatorio, le critiche durissime che ne riceve, l’insicurezza e poi la disperazione di Tchaikovskij, la sua mancanza di fiducia anche dopo il discreto successo della prima esecuzione (1868), quindi la decisione di ritirare la Sinfonia per rimettervi mano, i sei anni che ci vollero per completarla e i dieci che Tchaikovskij attese prima che venisse eseguita di nuovo.
Sull’altro piatto della bilancia, Le Sacre du printemps è il trionfo dell’energia musicale allo stato puro, l’abbattimento di ogni confine e di ogni regola in nome di una “ritualità pagana” che sembra giustificare tutto: la violenza e lo spasimo, le dissonanze e le percussioni martellanti, lo strepito dell’orchestra e i ritmi più irregolari mai concepiti fino a quel momento. Dietro la forza d’urto di questa musica, troviamo però di nuovo una forma di inquietudine soggettiva ancora una volta testimoniata da alcune immagini: Stravinskij che trova gli accordi iniziali della composizione quasi come un rabdomante, suonando su una tastiera coperta da un panno di feltro; quindi Stravinskij che ascolta, in sala, le reazioni di un pubblico che cerca di fischiare più forte di quanto non suoni l’orchestra (1913); ancora il compositore in stato di shock, che vaga di notte per le vie di Parigi, ma che non avrebbe tardato a riprendersi e a riproporre la sua musica tale e quale, aspettando che fosse il pubblico a cambiare.
Due sequenze oleografiche, forse, ma che sicuramente individuano la diversità dei caratteri non solo personali ma soprattutto musicali dei due autori. Perché se in Tchaikovskij il controllo della forma è il limite che egli contrappone a una sensibilità fin troppo esposta ai colpi del dolore, per Stravinskij il disinteresse per la forma è il lusso che può concedersi una natura talmente sicura dei propri mezzi da considerare l’incontro con l’altro e il confronto con un pubblico più o meno come un gioco.
Comune a entrambi, d’altra parte, era la convinzione che la musica non debba servire a esprimere niente oltre che se stessa. Nella Sinfonia n. 1 Tchaikovskij adotta un titolo almeno per i primi due movimenti (Sogni di un viaggio d’inverno e Terra di desolazione, terra di nebbie), oltre che per la Sinfonia nel suo insieme (Sogni d’inverno), ma si tratta di titoli generici, vagamente evocativi, che non caratterizzano in modo forte lo sfondo poetico di ciascun movimento. Stravinskij, dal canto suo, è legato alle tappe di una coreografia che viene di volta in volta richiamata dai titoli dei singoli “quadri”, ma che non è vincolante rispetto alla libertà di una musica che va ben oltre l’ambito ristretto di una funzione, di un soggetto e di una trama. Da entrambe le composizioni proviene allora una dichiarazione di fiducia nell’autonomia dell’arte musicale che esemplarmente Stravinskij condensava in una frase, quando si chiedeva se non era meglio amare la musica “per se stessa”, piuttosto che per la sua capacità di comunicare emozioni.
Stefano Catucci (da www.sistemamusica.it)