Semiramide: il potere alle donne
Al culmine del successo, dopo la tournée a Vienna, Rossini si ritira nella villa di Castenaso insieme a Isabella Colbran e al librettista Gaetano Rossi. I tre cercano di lavorare, come dice Rossi, «all'ossatura» dell'opera per Venezia. Sarebbe pronta dopo due settimane, non fosse che «continue distrazioni, viaggetti, scampagnate nelle vicine ville non ci avessero fatto perder giornate». Ne viene fuori una partitura mostruosamente lunga, testamento italiano del compositore, deluso dall'accoglienza ottenuta dalle opere più sperimentali del periodo napoletano.
L'opera-sarcofago, ambientata in epoca babilonese, smaccatamente reazionaria rispetto al gusto romantico, si basa sulla tragedia di Voltaire, che a sua volta riscrive il matricidio di Oreste contaminandolo con la storia di Amleto. In Voltaire la regina Semiramide non è veramente innamorata del guerriero Arsace, che ignora essere suo figlio: crede che l'unione con lui sia favorita dagli dèi, e spera così di trovare pace ai rimorsi. Nell'opera l'amore della regina sembra più acceso, e anche Arsace non scherza: è innamorato di una principessa che non ha voce, ma davanti alla regina sembra rivolgere a lei quell'elettricità che la coloratura vocale, fittissima, sprigiona.
Nella tragedia di Voltaire il motivo della regina decaduta è ripetuto fino all'ossessione. Si sovrappongono due immagini della protagonista: quella dello splendore passato, certificato dai sudditi fedeli, e quella del presente, tutto visioni e insicurezze. L'ombra del marito ucciso parla in continuazione a Semiramide, che entra in scena sconfitta, reggendosi alle ancelle. Quando inizia la tragedia, da tempo la regina non è comparsa al pubblico dei suoi sudditi, come una primadonna arrochita dalla perdita della voce e lontana dai fans. Anche se una recente apparizione ha finalmente fatto cessare le voci sulla sua presunta inefficienza (così ci racconta Azema, in Voltaire), il suo potere non è più saldo. Il potere lo si impone facendosi vedere: così Semiramide aveva conquistato la devozione del giovane Arsace, al quale era apparsa – ce lo racconta lui stesso – sfolgorante come una divinità, sul campo di battaglia.
In Rossini, Semiramide non conosce diminuzione di potere, se non all'inizio dell'opera. La scelta di cancellare i numerosi cenni alla debolezza, che in Voltaire accompagnano i discorsi sulla regina e la sua entrata in scena, rende possibile lo spostamento dell'ossessività visionaria sul personaggio di Assur, che al termine canta una scena di pazzia: Verdi ne trarrà spunto per quelle di Nabucco e Macbeth. Semiramide vive piuttosto il processo della riconferma del potere. Nella musica, nel canto, viene costruita come donna che cambia, proprio nel momento dell'apparizione ai sudditi. Al pubblico si offrono la regina e la cantante, una Isabella Colbran chiacchierata e in fine carriera, attesa al varco all'epoca del debutto veneziano, dopo alcune infelici prove precedenti. Lontana dai fedeli ascoltatori napoletani, dopo le tristi vicende di un Maometto II riscritto per Venezia, dopo i sinistri manifesti affissi ai muri della città, che la dichiarano condannata («Pregate / per l'Anima / della / Colbran Rossini»), la cantante madrilena riappare, forte di un nuovo potere: finalmente è la moglie ufficiale del Maestro.
Nei momenti di accensione erotica del teatro rossiniano, le donne sempre si trasformano e acquistano un potere che all'inizio non hanno: perché fingono, o non sanno di averlo. Semiramide è soggetta a una profonda mutazione, proprio all'inizio della vicenda. La sua comparsa in scena sembra dunque rappresentare quel luogo canonico della femminilità che è l'apparizione in pubblico, l'Epifania, che Rossini ha raccontato numerose volte: Elisabetta d'Inghilterra, Armida, e perfino Elena, nella Donna del lago, arrivano in scena come divinità pagane e soggiogano gli ascoltatori con la voce. All'inizio, però, quella di Semiramide è un'epifania mancata.
Gli occhi puntati su di lei, che tramite lo sguardo altrui riceve e comunica potere, Semiramide-Colbran appare nel corso dell'imponente cerimonia che apre l'opera, ma la definizione vocale contraddice quella del testo. Le prime frasi («Di tanti regi e popoli», I-3) sono dimesse. Semiramide non viene presentata come una vera primadonna: Oroe, il sacerdote, intona il canone e suggerisce alla regina come cantare. La melodia, incapace di formularsi sulle labbra della donna, le viene impartita dal rappresentante del potere maschile. Il tema della regina debole, censurato nel libretto, è presente nella musica: la sortita di Semiramide è traduzione musicale della sua temporanea cessione di potere. La regina decaduta è anche una primadonna decaduta e abbassata, un'eroina che trema, come trema la sua voce sul trillo lento di una nota, un segno che connota il femminile, in quest'opera dove tutti tremano e dove la coloratura diventa talvolta la traduzione madrigalistica del terrore dei personaggi.
Poi lei riprende il controllo. Avviene la mutazione. Paradossalmente, Semiramide conquista il potere dopo l'evento terribile del tuono e del fulmine, che la costringono a svegliarsi dal torpore. Prima era una donna incapace di decisione, succube dei sacerdoti, pronta solo a rimandare al futuro l'azione che tutti aspettano da lei. Ora riprende le briglie e "doma" il consesso musicale maschile, nella stretta dell'introduzione («Trema il tempio, infausto evento»), che inizia all'unisono, ma viene subito impugnata dalla voce femminile: è la sua cabaletta negata. L'iterazione del suo segno di terrore (la nota tremante nel trillo lento e sgranato) e l'aggressione della coloratura (una cabaletta senza melodia principale, tutta scomposti vocalizzi), indicano che in questo momento la regina, la cantante, la Colbran, hanno riafferrato il potere, si sono impossessate di uno spazio acustico prima assaggiato con estrema timidezza.
Marco Emanuele (da www.sistemamusica.it)