Schumann e la prova del fuoco
Che cosa c'è di più burocratico, grigio e prevedibile dell'agenda di un manager di provincia (altrimenti detto capoufficio), del calendario del campionato di calcio di serie C1 o del piano circoscrizionale per il rifacimento del manto stradale nel quartiere della Garbatella? E che cosa c'è, au contraire, di più libero, trionfante e senza redini, di un indomito spirito romantico votato alla subitanea espressione di un galoppante e immaginifico "sé"? Sembrano due universi inconciliabili e stratosfericamente lontani, tanto che l'accostamento potrebbe persino suonare blasfemo. Eppure, a dimostrazione ennesima che la logica dei contrari è sempre più prossima alla realtà della logica degli uguali, c'è un signore, vissuto molti anni fa, che è riuscito a riunire miracolosamente in sé sia le capacità del meticoloso pianificatore della propria "carriera" che le doti del rabdomantico indagatore della Innigkeit romantica. Questo signore un po' bizzarro e demodé si chiama Robert Schumann e in lui convergono in modo felicissimo (e ovviamente tormentatissimo) quelle due "categorie del pensiero" che Pier Paolo Pasolini avrebbe chiamato dell'"organizzar" (dare forma all'imprevedibile) e del "trasumanar" ("trascendere i limiti delle umane cose").
Se occorre una dimostrazione provate ad annotare nel vostro quadernetto interiore queste date: 1840, 1841, 1842, 1843. Quattro annate (proprio come si dice dei vini), una di seguito all'altra, che rappresentano altrettanti capitoli-cardine di un'avventura senza precedenti, né conseguenti: il "piano quadriennale", come lo si potrebbe definire con terminologia tardo-sovietica, che Schumann compila alla fine del 1839 con lo scopo di superare la delicatissima fase di transizione in cui si era venuto a trovare. Giunto al culmine del decennio della "grande fioritura pianistica" (iniziato con Papillons e terminato con la Seconda sonata), deluso dagli infelici tentativi di dar forma a un quartetto per archi e (addirittura!) a una sinfonia, il compositore decide infatti cocciutamente, volontariamente, lucidamente, di pianificare un percorso compositivo che dalla "morta gora" del pianoforte lo conducesse, lungo una serie di stazioni intermedie, all'empireo della "grande forma sinfonica" o, per meglio dire, al sacro soglio della "forma sinfonia". Ed è così che, senza alcuno stimolo esterno, senza alcun condizionamento pubblico, ma guidato soltanto dal suo istinto intellettuale (può sembrare un ossimoro, ma non lo è) l'autore di Kreisleriana stabilisce di dedicare ognuna delle annate prossime venture alla coltivazione meticolosa e puntuale di un solo, e unico, genere musicale. E il piano viene applicato con ammirevole severità: il 1840 sarà infatti l'anno del Lied (consultare, per credere, il catalogo delle opere), il 1841 sarà dedicato alla musica sinfonica, il 1842 diventerà il regno incontrastato della musica da camera e il 1843, infine, vedrà la nascita dei grandi oratori profani. Nessun compositore, romantico o meno, prima di lui, aveva adottato un sistema tanto implacabile quanto originale.
Il "piano", si intende, non è niente più di un sintomo. Che per essere interpretato avrebbe bisogno di una diagnosi critica approfondita, di un'anamnesi e quindi di una collocazione entro i termini di una "patologia" riconosciuta. Forse una forzatura lessicale, ma il campo semantico che ruota intorno alla parola "malattia", a proposito di Herr Schumann, è meno inappropriato di quanto possa sembrare. Non c'è dubbio, infatti, che in questo caso la radicale pianificazione di un percorso creativo fino a quel momento "normale" risponda, nonostante l'apparente freddezza del calcolo, a una "alterazione dello stato di quiete" propria di chi, come recita la bellissima definizione trecentesca di Mino Da Colle, è malato, ossia è "dominato da un sentimento acceso". Certamente la definizione di "malattia" può essere interpretata in molti modi diversi. Charles Rosen, ad esempio, nello straordinario capitolo schumanniano de La generazione romantica propende per una lettura sostanzialmente letterale: «Schumann – scrive – fu ossessionato, sin dall'età di diciassette anni, dalla paura di diventare pazzo». E i sintomi più appariscenti di questa precocissima alterazione si sono sempre tradotti in una serie di ossessioni e fobie che la più vieta aneddotica non ha mai mancato di ricordare in modo più o meno compiaciuto: la paura dell'acqua, l'agorafobia, l'ossessione per l'ordine e la tendenza a compilare cataloghi degli oggetti più disparati. Dunque la predisposizione alla pianificazione potrebbe essere parzialmente interpretata come il tentativo di ricorrere a un ordine rassicurante (l'ordine del "catalogo") come antidoto al disordine minaccioso della mente.
La dimensione del "piano" e l'ossessione per i cataloghi non sono necessariamente riconducibili, però, a un quadro clinico di carattere patologico. Possono anche rientrare in una cornice di tipo squisitamente stilistico. È ciò che fa, ad esempio, un altro "lettore eccellente" dell'opera di Schumann, Arnfried Edler, esegeta meno acuto ed enciclopedico rispetto a Rosen, ma dotato di un solidissimo metodo interpretativo. Secondo il musicologo tedesco il "progetto" messo a punto da Schumann all'inizio degli anni Quaranta non ha affatto a che fare con l'inconscio, bensì, al contrario, con la coscienza. E con quella particolare "coscienza etica" che il musicista aveva maturato, sin dagli anni della giovinezza, nei confronti del mestiere del compositore. Dagli scritti dell'amatissimo Jean Paul il giovane Robert aveva infatti appreso, oltre alla convinzione che l'invenzione fantastica fosse un mezzo per elevare la realtà al rango di "ideale", anche una solida coscienza della storia. E in particolare l'idea che le arti, e la musica tra le altre, dovessero fatalmente seguire, correndo tra i binari progressivi della storia, un percorso evolutivo "naturale". Dalle pagine del filosofo tedesco innamorato di Rousseau, Schumann apprende che la fiducia in questa sorta di "evoluzionismo storico dell'arte" pone all'artista, e dunque anche al compositore, un compito non più soltanto "estetico", ma anche per l'appunto "etico": il dovere cioè di condurre l'evoluzione musicale oltre le secche delle diverse "crisi" che ne minacciano il costante progresso evolutivo. Ed è proprio in questo ermeneutico "dover essere", piuttosto che in un ontologico (o psicologico) "essere", che va forse ricercata la motivazione profonda del "programma quadriennale".
La particolarissima sensibilità storiografica maturata da Schumann sulle pagine della "Neue Zeitschrift für Musik" aveva portato il "compositore-critico", o il "critico-compositore", a comprendere con pienezza di convinzione la "crisi" che aveva investito in pieno, dopo la scomparsa di Schubert e di Beethoven, lo sviluppo della musica strumentale "tedesca". Una frattura abissale che doveva in qualche modo essere risanata, pena l'esaurimento della spinta propulsiva del pensiero musicale "dominante". E Schumann sente, all'inizio degli anni Quaranta, il dovere morale di prendere sulle proprie spalle il peso di questo compito "storico". Lo fa senza ricorrere ad alcun superomismo titanico e demiurgico, ma anzi patendo, e quanto profondamente, la consapevolezza della inadeguatezza dei propri mezzi: un letterato-musicista che si sente a proprio agio solo sulla tastiera di un pianoforte e che ancora non possiede, a trent'anni di età, gli arnesi materiali capaci di ridare vento e forza alla gloriosa "forma" della sinfonia. Ed è per questo che vengono varati, nella solitudine e nella lontananza da Clara, i due grandi progetti del nuovo decennio (oltre ad alcuni radicali mutamenti esistenziali che sarebbe lungo qui ricordare): il sostanziale ritiro dall'attività critica e letteraria e la decisione di approfondire i "segreti" del Lied, della musica da camera, della scrittura orchestrale e di quella oratoriale. Un percorso che, nelle intenzioni di Schumann, avrebbe dovuto condurre (in realtà sono stati più numerosi i passi falsi delle affermazioni, i pentimenti delle conquiste) alla ricomposizione di quel perduto "nuovo ordine musicale" spazzato via dalla crisi "epocale" degli anni Trenta.
Tra i quattro intensissimi Flegeljahre (in realtà assai poco "scapigliati") vissuti da Schumann in questa "fase morale" della sua esistenza, il 1841, l'annus horribilis dedicato alla musica sinfonica, è certamente il più impressionante e il più generoso di sviluppi futuri. Sono ben cinque le porte che il compositore cerca di attraversare sperando di conquistare la sospiratissima "stanza della sinfonia": i primi passi della Frühlingssinfonie, ancora legata all'architettura dei quattro movimenti, ma percorsa da un rudimentale Leitmotiv, il ritorno all'indietro dell'op. 52 che sintetizza le forme "classiche" della suite, del divertimento e della sinfonietta, la Fantasia in la minore per pianoforte e orchestra (altro esperimento di sintesi tra sinfonia, concerto e sonata) che rappresenta il nucleo del futuro Concerto in la minore op. 54, il cartone preparatorio della Sinfonia in re minore che soltanto nel 1853 diventerà definitivamente la Sinfonia n. 4, e infine gli abbozzi di una Sinfonia in do minore che non vedrà mai la luce. Come si vede tutte opere (o frammenti, lacerti, episodi di opere) che mirano a un laborioso e ardimentoso lavoro di "ibridazione" tra le forme esistenti, avvertito come "passaggio forzato" verso la costruzione di forme più "pure" e "perfette". Sotto questo profilo due pagine tarde, nate tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio degli anni Cinquanta, come il Konzertstück op. 92 per pianoforte e orchestra e il Concerto in re minore per violino e orchestra, possono essere considerate, nonostante si pongano sotto il segno della "scoperta dello stile concertante", un prodotto del progetto varato da Schumann all'inizio degli anni Quaranta: la costruzione di "nuove forme musicali" depurate dalle scorie del passato, ma al tempo stesso consapevoli delle brucianti "prove del fuoco" alle quali la storia della musica spesso sottopone le sue creature predilette.
Guido Barbieri (da www.sistemamusica.it)