Schnittke l'eclettico, Glazunov il genio e Tchaikovskij il classico
"Su di lui avevano giurato tutti", scrive Mario Bortolotto a proposito di Glazunov. "Balakirev lo stimava "un piccolo Glinka"; Rimskij, con cui aveva studiato per un certo periodo, diceva dello studente come progredisse non di giorno in giorno ma di ora in ora (…); Tchajkovskij ne stimava il mestiere; Stasov lo aveva incensato come raramente gli era occorso: "il nostro Sansone"".
E in effetti Glazunov, il giovane genio, segnò tappe importanti nella storia della musica russa; anche in quella specifica del quartettismo. Si dedicò al genere nel corso di tutta la vita, scrivendo sette quartetti propriamente detti ma anche una serie di piccoli lavori, novellette, una suite, delle variazioni e altre cose: la severità dell'organico non lo spaventava, e gli piaceva anche divagare rispetto alla sequenza dei quartetti ortodossi. Che peraltro - come dimostra bene il Primo quartetto, del 1882 - gestiva con maestria assoluta, stupefacente per un diciassettenne, magnifica per noi che ci troviamo a scoprire quanto la lezione di Haydn, di Mendelssohn fosse stata assimilata.
Anche perché nella scrittura quartettistica il rapporto con la tradizione austro-tedesca è naturalmente fondante, ineludibile: non era pensabile, alla fine dell'Ottocento, prescindere dai modelli, cancellare la storia e la funzione del genere, seppure avvicinata alle suggestioni della cultura russa. Diventa quindi particolarmente interessante ascoltare il modo in cui Tchajkovskij, nel Terzo quartetto, del 1876, risolve la relazione con la storia. Per cominciare riprende la tradizione dell'Adagio introduttivo e ne fa il luogo in cui si chiariscono le regole del gioco: la discesa cromatica del violoncello, il non-tema di apertura annuncia che l'Allegro sarà un movimento fatto di incastri, non di canti. E il vero tema dell'Adagio, quando arriva, si distende su un territorio armonicamente indefinito, aperto, come "una sorta di devota replica al Dissonanzenquartett mozartiano tanto amato", ricorda Bortolotto. Il terreno sarà talmente disponibile a ogni divagazione che stenteranno a stabilirvisi delle vere melodie: tutto il movimento sarà un gioco di incisi, di stacchetti, di progressioni, nella più pura tradizione della conversazione cameristica.
Quando arriva l'Allegretto vivo e scherzando, però, le cose cambiano: le regole direbbero che quello è il luogo per il parlare domestico, per le piccole cose, è il momento gozzaniano della forma-quartetto; invece Tchajkovskij si impunta su un intervallo, una seconda minore, che a poco a poco monta, cresce su se stessa, va a strutturare un vero e proprio monumento: è quel "prevalere disperato di elementi non equilibranti, ma dispersivi, un flagrante predominio del centrifugo, e finanche dell'eccentrico".
Non è finita: nell'Andante funebre e doloroso, ma con moto, il meccanismo della ripetizione ossessiva lanciato dall'Allegretto si trasformerà in una nota ribattuta, come una campana, che poi porterà dritto a una citazione dalla messa ortodossa per i defunti. Finirà tutto lì: l'ultimo movimento è solo frutto di mestiere perché, dice ancora Bortolotto, "non vi è più posto per la pacificazione conclusiva quando anche lo Scherzo ha cominciato a far sul serio".
È un modo di fare, di accogliere nella forma del quartetto spinte eterogenee, di riunire Oriente e Occidente che cent'anni dopo ritornerà, amplificato, nel Terzo quartetto di Schnittke, del 1983. Maestro della citazione, Schnittke apre la partitura con un po' dello Stabat mater di Orlando di Lasso, poi inserisce qualcosa dall'ultimo quartetto di Beethoven, poi la sigla di Dmitrij Šostakovic (D, S, C, H: re, mi bemolle, do, si). Cogliendo i frutti del proprio gesto, Schnittke distribuisce le atmosfere generate da queste citazioni lungo i diversi movimenti: nel primo dominano sonorità da polifonia medievale, nel secondo si ascoltano umori tipici dei finali di quartetto di Beethoven, nel terzo la matrice sonora è quella delle immagini musicali un po' gelate di Šostakovic.
Il bello di questo modo di fare, però, è che Schnittke qui trova un proprio modo per amalgamare gli ingredienti, permettendo che siano riconoscibili ma offrendoli all'ascolto come le naturali fasi di evoluzione della partitura: non si procede soltanto dal primo verso l'ultimo movimento, ma anche dal Medioevo al Novecento, ripercorrendo l'intera storia della nostra musica. Altrove l'eclettismo di Schnittke esplode in modo gustoso, divertito, persino provocatorio; qui tende invece a integrarsi - e ci riesce - in una costruzione unitaria.
Nicola Campogrande (da www.sistemamusica.it)