Rachmaninov, il romantico vicino a Gershwin
«Nelle mie composizioni non ho fatto nessuno sforzo per essere originale, né romantico, né nazionalistico, o qualunque altra cosa. Scrivo sulla carta la musica che sento dentro di me, nel modo più naturale possibile. Sono un compositore russo, e la terra in cui sono nato ha influenzato il mio temperamento e il mio modo di vedere. La mia musica è il prodotto del mio temperamento, e così è musica russa; non ho mai cercato coscientemente di scrivere musica russa, o ogni altro genere di musica. Sono stato pesantemente influenzato da Tchajkovskij e da Rimskij-Korsakov; ma non ho mai, per quanto ne possa sapere, imitato nessuno. Quello che cerco di fare, quando scrivo la mia musica, è far sì che dica in modo semplice e diretto quello che ho nel cuore quando compongo. Se c'è amore, o amarezza, o tristezza, o religiosità, queste atmosfere diventano parte della mia musica, e questa diventa bella o amara o triste o religiosa». Così, con un atteggiamento inconsueto per un compositore di quel periodo, si descriveva Sergeij Rachmaninov nel 1941. Era nato nel 1873, in pieno Ottocento, è morto nel 1943, in pieno Novecento. Ascoltiamo i suoi quattro Concerti per pianoforte, ricordandoci che fu un pianista strepitoso, e pensiamo: «Romantici!». Naturalmente non hanno niente a che fare con il Romanticismo, loro, bensì con quella atmosfera svenevoluccia o impetuosetta che si suole chiamare al cinema "romantica". Un po' roba sua, di Rachmaninov, quel cinema, che apprese da lui negli Stati Uniti quelle atmosfere passionali senza calore, un poco astratte.
Arrivò negli Usa la prima volta nel 1909 come pianista strepitoso, quasi un concerto al giorno per tre mesi, dal 4 novembre. Il 28 presentò a New York il Terzo concerto in prima assoluta; dirigeva Walter Damrosch. Dove abbiamo già sentito questo nome? Beh, vicino a quello di un altro strepitoso pianista e grande inventore di temi musicali, George Gershwin. In gennaio, 1910, ripresentò il concerto alla Carnegie Hall con la New York Philharmonic diretta da Gustav Mahler. Dove lo abbiamo già sentito? Basterebbero questi due poli per situarlo, nel pieno di una serie di convenzioni assai amate del Novecento, non troppo distante all'orecchio da quel che facevano Debussy e Ravel, molto distante da Schoenberg che veniva anche da Zemlinsky che veniva anche da Mahler. Vicino a Gershwin? Più di quanto sembri. E L'isola dei morti? Singolare e potente poema sinfonico, questo ha climi espressionisti, turgori mahleriani. Non la ferocia degli uni, né la ribalderia costruttiva dell'altro. Rachmaninov era terribilmente equilibrato, sul pentagramma; nella vita attraversò almeno una grave depressione e assai modernamente ne uscì con l'ipnosi. Pochi giorni prima del debutto del Secondo concerto, autunno 1901, un amico gli fece notare come il primo tema, tecnicamente mal collegato al secondo, sembrasse solo una introduzione. Il nostro astratto pianista se lo suonò e ne convenne: «Ma perché diavolo me lo dici a cinque giorni dalla prima? E adesso come faccio?». Lasciò così, è uno dei suoi temi più amati. Aveva un gusto melodico, tematico, niente male e in qualche Prélude, in molti degli Études-tableaux (nemmeno Debussy chiamò "quadri" i propri Preludi) ci sono cose di notevole interesse. Ascoltate la 17a Variazione su un tema di Corelli, la più lunga, e vi verranno in mente parecchie canzoni. Non una in particolare, certo, ma è come con Gershwin (un centinaio di temi jazz costruiti solo sull'ossatura armonica di I Got Rythm): quella profusione melodica era davvero suggestiva. Ha anche scritto delle canzoni (Lieder, direbbero in tedesco) belle e profonde, ancora meno note delle austro-tedesche, ma così è. I compositori coevi, quelli di ricerca, espressionisti o impressionisti che fossero, non lo hanno interessato. Però oltre a Tchajkovskij ha eseguito Skrjabin e in fondo il suo sinfonismo è stato un ponte verso Shostakovich e questo lo ha tenuto nella modernità. L'opera Aleko che tanto colpì Tchajkovskij è ancora notevole, la Prima sinfonia op. 13 che ha ripreso di recente Pletnev è un lavoro davvero interessante e coinvolgente. Ma quel che resta poi è quel virtuosismo fulminante, che ancora sollecita i grandi interpreti e incanta il pubblico.
Michele Mannucci (da www.sistemamusica.it)