Quando l'aria diventa suono
Se ognuno di noi ripensasse un momento a come è venuto a contatto con la musica, e a come alimenta la propria passione, molte sarebbero le storie da raccontare, ma poche riguarderebbero la musica da camera. Eppure, prima della comparsa di radio e grammofoni non c'era altro modo di avvicinarsi alla musica in maniera non episodica se non "in camera", in uno spazio isolato in cui condividere, a vari livelli, un'esperienza collettiva. Al giorno d'oggi è assai probabile che l'esperienza musicale sia vissuta senza vedere direttamente chi suona, come quando si mette su un disco o si ascolta la radio, com'è anche probabile che in un concerto la voce di un cantante o il suono di uno strumento ci giungano filtrate o amplificate da apparecchiature elettroniche, a volte tanto sofisticate da essere quasi impercettibili. Anzi, probabilmente è proprio questo il tipo di suono a cui siamo abituati, al punto da rendere quasi inconsueto il suono di un ensemble da camera. Il motivo della sopravvivenza della musica da camera in un mondo di suoni e rumori amplificati sta tutto qui: nel mistero che si crea quando si hanno davanti i musicisti, li si può guardare, li si potrebbe persino toccare, si può vedere come si intendano fra loro con sguardi, gesti, a volte sorrisi, sembra che tutto sia chiaro davanti agli occhi, disponibile, intellegibile, e però ciò che essi fanno insieme, la musica che ne viene fuori non è interamente riconducibile a quei gesti, è qualcosa di più, è irriducibile ai movimenti che la producono. Il contrasto fra l'ordinarietà, la quotidianità, la semplicità dei gesti esecutivi e la complessità del risultato musicale non potrebbe essere più evidente: si pensi ad esempio al respiro umano, all'atto primo e ultimo della vita, che in uno strumento a fiato diventa suono, e come differenti strumenti a fiato trasformino in modo differente il respiro, a seconda della loro conformazione, in timbri e colori differenti, e come differenti colori del respiro umano si fondano insieme a formare un ensemble. Gli strumenti a fiato, e i loro esecutori, godono di una sorte curiosa: nell'orchestra sinfonica ricoprono spesso ruoli da solisti, studiano e apprendono il repertorio solistico, ma hanno poche composizioni di musica da camera a loro interamente dedicate, in paragone allo sterminio di partiture esistenti per archi o per formazioni con il pianoforte. Si sa che nella musica da camera si è tutti chiamati in causa come solisti per contribuire disciplinatamente al suono dell'insieme e stupisce quindi una siffatta disparità di trattamento, ma forse non vale la pena domandarsene il motivo, perché si finirebbe col parlare delle idiosincrasie di questo o quel compositore, taluno più a suo agio con le escursioni dinamiche del pianoforte, talaltro con le possibilità di intrecci offerte dagli archi. Quando però si accostano partiture piene di sonori silenzi, di respiri intonati, e di magiche percussioni come nel Secondo Quintettino di Salvatore Sciarrino all'evocazione dei carillon di un orologio meccanico di un divertito Beethoven, colpito dagli ingegnosi marchingegni di un allora popolare orologio con flauti, alle memorie operistiche di Rossini che Giulio Briccialdi ha ricomposto in un pot-pourri, e agli sviluppi tematici ora chiari e trasparenti del Quintetto di Giuseppe Maria Cambini, ora più intricati e lirici di Carl August Nielsen, ci si chiede quali altre sorprese ci può riservare l'esplorazione di quel luogo consueto eppure sconosciuto dove l'aria diventa suono.
Da www.sistemamusica.it