Olivier Messiaen (1908-1992) o delle risonanze spirituali
In Messiaen la risonanza è ancor prima del suono; è specchio e iscrizione reciproca di ogni cosa sull'altra: la dimensione celeste su quella terrena, la natura umana su quella animale, la cultura occidentale su quelle orientali. Ecco perché la sua musica stempera qualsiasi celebrazione magniloquente del cristianesimo, che pur la abita, con un aperto dialogismo; musica tutt'altro che ripiegata su sé stessa, ma invece che "chiama a raccolta", come a costruire un arco sonoro che si estende e abbraccia, tutela e canta ogni cosa.
La "fine del tempo" è la fine delle distanze, del colmare l'irraggiungibile, la spazializzazione reciproca degli affetti e delle simpatie. Eppure, questi istanti di auscultazione riflessiva della comunione risonante, si sciolgono in nuovi scoscesi allontanamenti, rincorse, ricomposizioni. Lo strumento solo soprattutto, rispetto alla coralità orchestrale, rimanda alla drammatizzazione della campo solitario della coscienza, dei moti che la abitano. Ed anche la natura non ha mai solo la faccia della "bontà della creazione", ma talvolta sibila come un serpente, fischia come il vento, è nube cupa e incombente. Sono questi i momenti migliori della musica di Messiaen, dove palingenesi e ferita sono in tensione reciproca, reperibili soprattutto nella sua opera organistica e pianistica. La dialettica è iscritta molto spesso come personaggi sonori (ritmi, temi) che si rincorrono, parlano a turno, poi litigano e infine si associano. Il fatto che sia dialogismo quasi argomentativo, ancorché puramente musicale, è testimoniato dalla forte costruzione retorica del discorso sonoro di Messiaen. Retorica che talvolta appare anche macchinosa, dato che deve ricorrere a frequente ripetizioni e a blocchi fin troppo distinti e giustapposti, ma che dà al paesaggio sonoro un'ombra di iconicità, di rispecchiamento di forze naturali, di dialogo di forme e di passioni che brevemente si impongono e poi lasciano il posto ad altre: quasi come fosse un linguaggio filmico che procede per sequenze, per porzioni di mondo.
Del resto, ascoltando la musica di Messiaen, si è inondati da una serie di suggestioni visive, prospettive sempre chiare, di largo respiro: la comunicabilità suasiva della sua musica è scenario dell'invisibile, mondo plastico, di grande effabilità, dispiegato in flussi avvolgenti di colori e di luci abbaglianti (si pensi al grande lavoro su timbri e durate). Il suono deve essere, per Messiaen, testimonianza dell'al di là, impregnarsi dei sensi di una realtà superiore attinta, non tanto nell'interiorità, quanto già nella densità brulicante e soggiacente della natura. Come per i pittori di icone russe, l'opera non è visione di un'ascesa allo spirituale (arte della salita), ma invece una testimonianza di una piena visione dell'assoluto (arte della discesa) [Pavel Florenskij, Le porte regali].
Al contrario dell'icona, la musica di Messiaen diviene talvolta troppo enfatica e accesa, magniloquente; anche se rimane genuina, conserva un'innocenza: «Sono un musicista del colore e della gioia», afferma lo stesso Messiaen [in Brigitte Massin, Une poétique du merveilleux, Ad. Alinéa, 1989, p.59]. Il connubio tra limpidezza e austerità, davvero originalissimo, riscatta dagli eccessi di abbandono sensuale e spiritualista; consentono alla musica di assumere un alone severo, ombroso, contrastivo, forse al di là delle intenzioni esplicite di Messiaen, il quale molto si preoccupava che la sua musica fosse recepita nella stessa modalità in cui egli l'aveva composta (di qui anche l'abbondare di note descrittive rivolte all'ascoltatore). Questo debordare delle musica fuori delle intenzione dell'artista è quanto vi possa essere di più benefico; ecco perché la musica di Messiaen può essere intesa come musica eterna (fuori dalla storia) e nel contempo come avanguardia, come musica sacra ma capace di offrirsi a un ascolto laico, severa ma sensuale, rigida ma esplosivamente inventiva.
La pubblicazione in cd completa del Catalogue d'oiseaux (1956-58) per pianoforte, opera monumentale, fornisce all'ascoltatore la testimonianza più variegata negli umori e più intensa nei risultati espressivi dell'intera opera di Messiaen. Eseguito da un ispirato e coinvolgente Anatol Ugorski, il Catalogue d'oiseaux è un'opera di rara eloquenza, capace di dipanare un discorso musicale che rapisce come entro i vortici di un infinito racconto: il lavoro sulle durare e sulle risonanze è tale che costruisce un paesaggio musicale dotato di profondità, che l'orecchio attraversa impregnandosi di suono. Sollecitati sono soprattutto i registi estremi, messi in vicendevole tensione, aprendo il discorso musicale anche a ardite asprezze. Il fatto che Catalogue d'oiseaux sia composto da un materiale sonoro proveniente da ben 77 canti di uccelli, non lascia spazio mai ad alcun effetto stucchevole; anzi il clima è spesso raggelato, cristallino e austero, le linee musicali precise quasi fossero tratti scultorei, anche se mancano "nuvole sonore" più impressioniste e eteree.
Vingt regards sur l'Enfant Jésus è l'altro capolavoro pianistico di Messiaen, anch'esso di sterminate proporzioni: composto in un solo anno (1944), è opera molto varia, irrequieta, piena di inflessioni contrastanti, costruita come a partire da materiali di partenza estremamente definiti che poi si diffondono in onde propagatorie che liberano paesaggi più ampi, ora dall'atmosfera rarefatta e cangiante, ora di cupa tempestosità. Una cosa è certa: buona parte del pianismo avanguardistico fine anni quaranta- primi anni cinquanta proviene da quest'opera straordinaria di Messiaen; basti pensare alla Seconda sonata di Boulez o ai primi Klavierstücke di Stockhausen.
Dell'opera organistica, pubblicata integralmente da bis, ma ricorrente nei cataloghi di altre case discografiche, va segnalato sopra ogni altra cosa il Livre d'orgue (1951), opera di straordinario rigore e di ardita costruzione, dove anche tutta la riflessione teorica di Messiaen, soprattutto sul ritmo, viene pienamente applicata. In alcuni movimenti, in Les mains de l'abîme soprattutto, Messiaen esplora dimensioni tenebrose e magnetiche: l'energia musicale si scatena, si drammatizza, si estremizza; si dipanano atmosfere livide, elettriche, che stupiscono per quanto riescano ad esser modernissime e dal sapore profondamente antico nel tempo stesso: archeologia spirituale gettata nel futuro.
Accanto alle opere solistiche si pone naturalmente il magnifico e celebratissimo Quartetto per la fine del tempo per violino, clarinetto, violoncello e pianoforte: scritto in tempo di guerra, il Quartetto possiede una straordinaria sincerità dei toni, una presa emotiva sicura sull'ascoltatore. Colpisce in particolare la riuscita e al perfetta armonia tra le parti solistiche, i duetti e le frasi a quattro, la capacità di sintetizzare ad un massimo d'icasticità il discorso musicale per poi distenderlo altre volte come un flusso che richiede una durata aperta, potenzialmente infinita.
Sulle grandi opere orchestrali di Messiaen bisognerebbe parlare a lungo: alcune, come la Turangalîla-symphonie (1946-48), sono famosissime e molto frequentate nei programmi concertistici. Il vigore raggiunto dalla potenza sonora e la smisurata diffrazione timbrica consentiti dall'orchestra, sembrano costruire il terreno preferito per la poetica di Messiaen; in effetti, gli esiti sono, frequentemente, assolutamente rilevanti, talvolta di indimenticabile efficacia. Altrettanto indubbia è però una certa "macchinosità" della costruzione musicale, che talora appesantisce enfaticamente il discorso, incline a massicce ripetizioni, a frasi fin troppo schematicamente geometriche. Forse nella sua concisione, il capolavoro orchestrale di Messiaen è Oiseaux Exotiques (1956), che rapisce per fantasia e bellezza timbrica. Davvero affascinanti sono alcune sezioni de La trasfiguration de Notre Seigneur Jèsus-Christ, dove vi è un bellissimo impasto tra coro, orchestra e un ampio drappello di strumenti solistici.
Oltre al capolavoro celebrato della Turangalîla-symphonie, va ricordata almeno un'altra composizione orchestrale di dimensioni titaniche: Des canyons aux étoiles (1971-74), dotata anche di terse atmosfere, oltre a quelle solitamente magniloquenti: anche le parti solistiche, piuttosto abbondanti, sono molto efficaci. Prevale qui il ritratto della natura, che in alcuni casi si fa riproduzione iconica esplicita, come nel caso del vento.
Pier Luigi Basso (da www.orfeonellarete.it)