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L’Umanesimo di Prokofiev

 

Sergej Sergejevic Prokofiev morì a soli sessantadue anni in un giorno e in un momento sbagliati. Il 5 marzo 1953 veniva annunciata la morte di Stalin, e la morte di Prokofiev passava inosservata a tal punto che solo dopo quattro giorni ne parlava per primo un giornale americano e addirittura dopo sei giorni la "Pravda". Sbagliato il giorno. Ma sbagliato anche il momento. Perché nel 1953 l'interesse della critica più impegnata era tutto attratto dall'utopia della Nuova Musica, per la quale non era in odore di santità neppure Schoenberg, scomparso da meno di due anni. E se non era "in" Schoenberg, figurarsi come veniva guardato Prokofiev, che aveva concluso il suo catalogo con un abbozzo di Sonata in mi minore e che aveva sempre fatto professione di devoto officiante della melodia.
Negli anni Cinquanta la storia della musica del Novecento sembrava tutta scritta non solo per il recente passato ma anche per il prossimo avvenire, e dal suo corso maggiore restavano esclusi tanti artisti, tra i quali Prokofiev. La successiva rivalutazione di Richard Strauss e di Dmitrij Shostakovich– tanto per citare due soli tra i personaggi che erano stati collocati nella penombra del limbo – fece capire a chi voleva intenderlo che la storia della musica del Novecento era ancora tutta da scrivere. Si è cominciato a scriverla. Come si collocherà in essa Prokofiev
In realtà non lo sappiamo. Sappiamo però già con assoluta sicurezza che Prokofiev è una delle figure del Novecento musicale maggiormente rappresentative nel campo del teatro musicale (opera e balletto), nel campo sinfonico, nel campo del concerto, nel campo pianistico, nonché, last but not least, nel campo della musica cinematografica.
Un artista molto versatile, dunque. Shostakovich lo supera per la musica da camera ma gli sta indietro nel balletto. E nessun altro artista del Novecento s'avvicina, quanto ad ampiezza di interessi creativi, ai dioscuri russi. Ma vi si avvicina forse qualche artista dell'Ottocento? L'Ottocento, che pure in numero cospicuo popolò di Dei della musica l'Olimpo, è il secolo in cui, a cominciare da Beethoven, si impone la specializzazione. Così, per ritrovare un musicista a tutto campo come Prokofiev (e come Shostakovich) bisogna risalire fino a Mozart.
Che per ragioni banalmente anagrafiche non scrisse musica cinematografica, così come Prokofiev, per ragioni banalmente politiche, non scrisse musica sacra. Noi siamo però certi del fatto che, se fosse vissuto un secolo e mezzo più tardi, Mozart non avrebbe respinto le sirene di Hollywood, così come siamo sicuri del fatto che, se nel 1917 la Germania avesse rifiutato a Lenin il diritto di transito e se la confessione ortodossa russa avesse mantenuto il suo rango di Chiesa di Stato, Prokofiev avrebbe scritto Messe e Vespri. Del resto, due delle sue Cantate – quella per il ventesimo anniversario della Rivoluzione d'ottobre e quella per il sessantesimo compleanno di Stalin – sono laiche solo apparentemente.
L'orientamento di queste due Cantate è tuttavia ideologico, non politico, e la politica, la politica staliniana degli anni Trenta, le rifiutò energicamente, tanto che la gigantesca, babilonese Cantata per il ventesimo anniversario su testi di Engels, Marx, Lenin e Stalin, non venne neppure eseguita. Rientrando in patria con la famiglia nell'aprile del 1936 dopo diciotto anni di residenza all'estero, Prokofiev compiva una mossa politicamente ed esistenzialmente errata: basti pensare che tre mesi prima era uscito sulla "Pravda" l'articolo Caos al posto della musica con il quale il Potere, mettendo ad arrostire sulla graticola Shostakovich, mandava un avviso per nulla criptico a tutti i musicisti.
Una mossa suicida, quella di Prokofiev. Sulle ragioni che lo indussero a scegliere di vivere nell'Unione Sovietica si è molto discusso, arrivando fino al punto di asserire che il governo del suo paese gli aveva saldato i debiti di gioco in cui affondava. Nessun motivo di questo genere fu in realtà alla base di una decisione funesta per l'uomo Prokofiev, che nel 1948 sarebbe stato persino costretto a pubblicare una umiliante autocritica, e per la sua prima moglie, che avrebbe trascorso otto anni in un gulag. No. Prokofiev rientrò nell'Unione Sovietica – spendiamo una grossa parola d'altri tempi – per patriottismo, perché riteneva che il programma di acculturazione di massa che era stato impostato dopo la Rivoluzione e che veniva inflessibilmente realizzato offriva al musicista l'occasione di rivolgersi a un pubblico molto più vasto di quello che nell'Europa occidentale e negli Stati Uniti era interessato alla musica "classica".
La teorizzazione prokofieviana del "leggermente serio" del "seriamente leggero" in musica è di sicuro ingenua. Ma il balletto Romeo e Giulietta, una delle rarissime partiture del Novecento che eguaglino in popolarità certe musiche dell'Ottocento, dimostra che Prokofiev predicava forse male e razzolava benissimo. Prokofiev, all'opposto di molti dei grandi musicisti suoi contemporanei, poneva al centro dei suoi interessi di artista il problema della comunicazione, e in funzione di questo svolgeva le sue ricerche sul linguaggio. Da questo suo orientamento nacquero, oltre al Romeo e Giulietta, la favola Pierino e il lupo, le cosiddette Sonate di guerra per pianoforte, le 2 Sonate per violino, la Quinta e la Sesta sinfonia e altre pagine ancora a cui il pubblico sovietico decretò il trionfo.
Proprio la vicenda della Sesta sinfonia, accolta con incontenibile entusiasmo dal pubblico di Leningrado e messa alla gogna dalla "Pravda" dopo l'esecuzione di Mosca dimostrava però che il contrasto fra ideologia e politica era non solo profondo ma insanabile. Vittima dell'Inquisizione staliniana, Prokofiev ebbe una postuma riabilitazione con l'attribuzione alla sua Settima sinfonia del «Premio Lenin», che nel 1957 veniva per la prima volta assegnato a un musicista. E la posterità, a cinquant'anni dalla morte, lo ha già collocato nella storia di un Umanesimo senza confini.

 

Piero Rattalino (da www.sistemamusica.it)