Lo sguardo del Kronos sulla musica afroamericana
Probabilmente nessuno meglio dei quattro musicisti del Kronos ha saputo interpretare il significato del ruolo di un artista nella musica contemporanea di estrazione accademica: fungere da filtro e da lente di ingrandimento delle molteplici espressioni prodotte dalla cultura del nostro tempo. Laddove per cultura, si badi bene, non si dovrebbe intendere quella che identifica esclusivamente la musica occidentale, attribuendole un ruolo egemonico.
In quest'ottica si collocano senz'altro le loro interpretazioni di autori appartenenti all'universo afroamericano. Hanno quindi trovato ospitalità nel loro repertorio Thelonious Monk, Duke Ellington, Bill Evans ed Ornette Coleman sul versante jazzistico; Jimi Hendrix, Willie Dixon e Ben Johnston nella ricerca delle connessioni tra aspetti profani del blues e sacri del gospel; Astor Piazzolla come esempio sublime di un compositore capace di creare equilibri mirabolanti tra matrice popolare ed accademica, elevando a forma d'arte una musica come il tango, finalizzata prima di lui ad una pur lodevole funzione sociale come la danza.
Vale dunque la pena di soffermarsi su alcuni aspetti di questo non trascurabile segmento della vasta produzione del quartetto per cercare di metterne in evidenza i tratti distintivi, tra pregi e difetti, felici intuizioni ed anche carenze strutturali ed espressive. Queste ultime meritano di essere evidenziate, non certo per sminuire l'egregio lavoro del quartetto, quanto per sottolineare certi limiti nell'approccio al repertorio afroamericano normalmente evidenziati dai musicisti di estrazione classica.
Riconsiderate attentamente, le sedute che diedero vita a Monk Suite (autunno 1984) e Music Of Bill Evans (all'incirca un anno dopo) offrono parecchi motivi di discussione, frutto di altrettanti lati controversi. Prodotte da Orrin Keepnews, le incisioni furono originariamente pubblicate dalla Landmark e sono state poi ristampate dalla 32Jazz sotto il titolo The Complete Landmark Sessions.
Risulta senz'altro fondamentale per la finalizzazione dei due lavori il ruolo di Keepnews, produttore di storiche sedute sia di Monk che di Evans. A lui si deve il coinvolgimento di Ron Carter nell'incisione di Monk Suite, di Eddie Gomez e Jim Hall nella realizzazione di Music Of Bill Evans. Presenze autorevoli dall'alto dell'indiscusso magistero jazzistico e, nel caso di Gomez e Hall, storicamente e stilisticamente legate alla figura di Evans.
Dall'ascolto dei due Cd si evince comunque un dato indiscutibile. A differenza di altri quartetti d'archi impegnati in misura diversa in lavori di impronta jazzistica (Turtle Island, Black Swan, l'Uptown di Maxine Roach nel Double Quartet diretto dal padre), il Kronos affronta la materia dal di fuori, con un approccio intellettuale e distaccato. Emerge con evidenza la lodevole volontà di mettere Monk ed Evans sullo stesso piano di Bartok, Webern, Riley, Glass o qualsiasi altro compositore del Novecento. Un'ottica, questa, onnicomprensiva e "democratica", del tutto connaturata alla poetica del quartetto.
Sull'altro piatto della bilancia, l'orecchio del jazzofilo o del musicofilo attento alla connessione tra jazz ed altri linguaggi può cogliere, soprattutto in Monk Suite, una palpabile mancanza di swing ed un'impostazione ritmico-armonica che riproduce solo in filigrana i tratti più superficiali della geniale visione di Monk, con le sue frasi sghembe ed irregolari, i suoi intervalli atipici, i suoi accenti spostati. Una discrepanza forse inevitabile, che neanche Carter può compensare con il suo fraseggio plastico e ficcante, accompagnato dai suoi caratteristici glissando, soprattutto in episodi come "Well You Needn't", "Rhythm'a'ning", "Off Minor". Per contro, "'Round Midnight" e "Crepuscule With Nellie" (per le curve melodiche ricche di risvolti ed il pregnante impianto armonico) e "Misterioso" (in virtù del disegno geometrico) si rivelano un terreno più accogliente per il quartetto. Un contrasto che anche i tre brani inclusi nella sezione "Monk Plays Ellington" riflettono in pieno: lo conferma il confronto tra "It Don't Mean A Thing" e "Black And Tan Fantasy", ovviamente risolto a favore del secondo.
Contraddizioni analoghe si ritrovano anche in Music Of Bill Evans, benché la musica del pianista poggi su una concezione armonica di impronta in buona parte europea, intrisa di umori debussyani e perciò di gran lunga più consona all'estrazione del Kronos. Il contributo di Gomez - su "Waltz For Debby", "Very Early" e "Nardis" - è radicalmente diverso da quello di Carter sul disco precedente. Laddove Carter, infatti, sembrava svolgere prevalentemente la funzione di regolatore del tessuto ritmico, apportandovi qualche robusta iniezione di swing, qui Gomez integra il lavoro del quartetto con le intuizioni melodiche che ne avevano contraddistinto il sodalizio con Evans, mettendo quest'ultimo in condizione di sviluppare ulteriormente la sua idea di interplay.
Gli interventi di Hall, come sempre rarefatti, laconici ed eloquenti al tempo stesso, nobilitano "Walking Up", "Turn Out The Stars" e "Five", tracciando coordinate affini a quelle a suo tempo stabilite con Evans in opere come Undercurrent, Intermodulation ed Interplay. Ora come allora, prevale un'encomiabile poetica della sottrazione, che evita abbellimenti controproducenti, enucleando invece l'essenza dei brani in termini armonici e melodici. Sotto questo profilo sono interessanti anche le esecuzioni per soli archi di "Re: Person I Knew" e "Time Remembered", esempi attendibili della possibilità di proiettare la musica di Evans in una dimensione cameristica.
Nel 1987 White Man Sleeps (che deriva il titolo dall'omonima composizione del sudafricano Kevin Volans) ospita due contributi dedicati ad autori di ambito afroamericano: Ornette Coleman e Ben Johnston. Prendendo spunto dalla predilezione del sassofonista texano per l'uso ricorrente degli archi (il quartetto in Town Hall e Chappaqua Suite, la grande orchestra su Skies Of America), Harrington e compagni rimodellano il tema di "Lonely Woman" calandone l'ampio respiro drammatico in un contesto di matrice decisamente europea. Di Johnston riprendono la composizione senz'altro più nota, la "Amazing Grace" punta di diamante del repertorio gospel, divenuta celebre anche grazie all'emozionante versione offerta da Aretha Franklin sull'omonimo lavoro del 1972. Di "Amazing Grace" il Kronos ha il merito di esaltare la solennità derivante dal superstrato europeo degli inni religiosi.
Paradossalmente, è negli sporadici episodi legati al blues ed alla sua componente profana che il Kronos riesce ad esprimere il meglio della sua carica eversiva e del suo potenziale timbrico ed espressivo. La "Purple Haze" di hendrixiana memoria conclude Kronos Quartet (1986): tre minuti dall'incalzare ritmico sferzante, squarciato dall'assolo di violino di Harrington che si getta alle spalle ogni accademismo per ricollegarsi idealmente alla ricerca timbrica di Hendrix. Un'esecuzione destinata a divenire un cavallo di battaglia nelle esibizioni dal vivo del quartetto, con un tocco di platealità antitetico rispetto ai riti e agli atteggiamenti paludati dei concertisti classici. Short Stories (1992), tra i lavori più vari ed efficaci del quartetto, mette in evidenza l'arrangiamento (curato da Steven Mackey) di una "Spoonful" di Willie Dixon ossessiva, "sporca" al punto giusto, giocata su calibrati equilibri ritmici e dinamici. Certamente un valido modello di stilizzazione del blues.
Tra i culmini artistici ed espressivi toccati dal Kronos nella propria sconfinata produzione vanno senza dubbio annoverate le interpretazioni riservate a Piazzolla, soprattutto in virtù della ricchezza di sfumature e colori (vere e proprie espressioni di sentimenti) insita nella musica del compositore e bandoneonista argentino. Se ne coglie già una prima, significativa testimonianza in "Four, For Tango", inclusa in Winter Was Hard (1987). I 4'41" del brano condensano le componenti più intimamente afroamericane dell'universo di Piazzolla: la pulsazione ritmica cupa ed inquietante derivata dall'habanera; le frasi seccamente articolate dal possente archettato; gli inconfondibili glissando prodotti facendo stridere gli archetti sui ponticelli degli strumenti.
Five Tango Sensations, registrato nel 1990 assieme allo stesso Piazzolla impegnato al bandoneon, concilia felicemente questi tratti con il versante europeo dell'identità del compositore di Mar del Plata, che qui utilizza gli archi pensando a certi suoi lavori orchestrali, come Concierto para bandoneon o Tres tangos. Una differenza fondamentale risiede nel fatto che qui Piazzolla intende creare un impianto di stampo cameristico, facendo interagire il proprio strumento con gli archi in un delicato equilibrio dialettico, attraverso impasti timbrici di grande raffinatezza e compattezza. L'unitarietà concettuale del lavoro fa di Five Tango Sensations una suite di circa ventisei minuti e mezzo, composta da cinque movimenti: "Asleep", "Loving", Anxiety", "Despertar" e "Fear". Senz'ombra di dubbio una delle opere più significative dell'ultimo Piazzolla ed una delle prove più convincenti del Kronos a confronto con musiche di matrice afroamericana.
Se poi si considerano un'opera fondamentale come Pieces Of Africa ed un lavoro di indubbio spessore - interamente incentrato su Volans - come Hunting: Gathering, ci si rende meglio conto dell'importanza dell'elemento africano nella musica del Kronos. Peraltro, se si associano le incisioni sopra citate alle interpretazioni che il Kronos ha fornito di autori di varie aree come Zorn, Sharp, Barber, Ives, Cowell, Nancarrow, Lou Harrison, Scott Johnson, Hyla, Riley, Glass, Ostertag, ne risulta un quadro esaustivo della musica americana del XX secolo. Ciò contribuisce a rimarcare ulteriormente, se ancora ce ne fosse bisogno, l'importanza di questo quartetto nella musica contemporanea vista nella sua accezione più estesa. A questo punto non resta che coltivare la speranza che sotto la lente di ingrandimento del Kronos possa un giorno capitare un genio come Frank Zappa.
Enzo Boddi (da www.allaboutjazz.com/italy)