Leopardi, Nietzsche e la scrittura aforistica
Nel Discorso preliminare che costituisce il suo scritto teorico più antico e a suggello della traduzione dal greco, dal latino e dal francese di quaranta epigrammi, il giovane Leopardi rilevava come peculiari del genere la confluenza e persino l'identità tra <<un pensier vivo e inaspettato>> e uno <<stile vibrato e racchiuso in un breve giro di parole>>, augurandosi che gli Italiani tornassero a cimentarsi con questo <<parto del genio>> più di ogni altro adatto ad esprimere <<il gusto e il carattere dello scrittore>>. Sin dal 1812, dunque, l'inesausta interrogazione del poeta sul nesso imprescindibile tra "contenuto" e "forma", tra "pensiero" e "stile", sembrava aver individuato nella <<acutezza>>, <<brevità>> ed <<energia>> del discorso epigrammatico una sollecitazione particolarmente feconda per i futuri sviluppi della propria arte e per la sua fissazione per verba. Era, secondo Neumeister, l'intuizione ancora incunabolare delle coincidenze significative tra epigramma e aforisma, poi accuratamente illustrate da M.A.Rigoni in un suo scritto leopardiano. Non sarà un caso, perciò, che il poeta che continua a scrivere e tradurre epigrammi e con uno di essi, lo Scherzo, conclude l'edizione dei Canti, smetta di coltivare il genere ammirato proprio allorché sistematico si fa il suo impegno nella stesura dello Zibaldone. Rassegna di pensieri e aforismi che opportunamente potremo intendere anche come serie potenzialmente illimitata di "epigrammi in prosa", in tal senso il brogliaccio conferma anziché smentire l'interesse affatto episodico e, anzi, particolarmente congeniale a Leopardi, per uno stile che procede per rapidi scorci e per mezzo della brevitas mira a dischiudere anziché circoscrivere le potenzialità comunicativo-allusive dell'enunciato. NelloZibaldone, dunque, l'aforisma si mostra nella sua accezione più moderna, risultando ormai estraneo a "generi" ad esso per tradizione contigui, quali l'aphotegma, la massima o la regola, che, come voleva Montesquieu, <<ne sont faites que pour conduire les sots par la main>> e in nulla partecipano di quell'<<esprit de conversation>> che l'aforisma irraggia, invece, in virtù della sua peculiare <<maniere coupée et vive>>. Testo scritto che conserva l'eco della scaltrita oralità dei salons, cui deve la sua fortuna moderna a partire da La Rochefoucauld, esso, sulla scorta ancora di Montesquieu, è per Neumeister il risultato di un'osservazione sottoposta al giudizio (<<la distinction>>) in quanto al servizio della <<lumière>>, verità che rifiuta i grandi sistemi speculativi astratti in favore di un pensiero "peripatetico": libero, asistematico e, soprattutto, nemico del dogma perché fondato sull'analisi dei fatti nel loro perpetuo e sempre discontinuo divenire. Proprio a partire da Leopardi, dunque, e in riferimento al sistema dei generi letterari proposto da Paul Hernadi negli anni Settanta del secolo scorso, l'aforisma, che non è né lirico né drammatico né narrativo, si pone per Neumeister come genere autonomo che, poiché abbandona le tecniche della verbalizzazione dell'azione per dedicarsi all'"osservazione", attiene all'analisi filosofica delle azioni umane e, più specificamente, alla filosofia morale. Come rilevato da Harald Fricke, inoltre, autore di importanti studi sul genere aforistico, esso risulta particolarmente congeniale ai cosiddetti <<filosofi artisti>>, ben diversi dai <<filosofi sistematici>> perché le loro opere risentono di un'opposizione fondamentale tra <<una forma poetica di stimolante amibiguità>> e <<lo scopo filosofico di una cognizione formulabile per proposizioni e fondabile per argomenti>>.
Se, dunque, Leopardi è a ragione reputato <<il più grande frammentista e il più grande aforista dell'Italia moderna>> anche e soprattutto in virtù del suo Zibaldone, la definizione di <<monumento frammentario>> coniata da Rigoni per il fecondissimo brogliaccio cui il recanatese affidò il portato sempre in progress delle sue riflessioni esemplari risulta quanto mai calzante anche per il corpus testuale, peculiarmente ed esemplarmente modulato per aphorismata, della filosofia di Friedrich Nietzsche. Ma, se l'aggettivo "frammentario" con pertinenza allude in entrambi i casi al rifiuto della forma di esposizione di un pensiero sistematico che, nella sua attualità, riunisce contro l'imperante idealismo i due pensatori del XIX secolo, Neumeister esclude che con il termine di "monumento" si possa evocare una concezione di "sistema filosofico" valevole per Leopardi quanto per Nietzsche. Mentre per il pensatore tedesco, infatti, il procedere della riflessione senza ordine apparente, senza progresso e senza sintesi è la risposta polemica ai limiti della conoscenza aprioristica degli antichi, <<prigionieri della gabbia dei loro sistemi come fiere in cattività>>, per Leopardi, come proverebbero gli indici dello Zibaldone e la derivazione da esso di un libro strutturato come i Pensieri, la "frammentarietà" non esclude la necessità di un sistema: ne è, semmai, il presupposto inevitabile, l'approssimazione momentanea e per difetto. Piuttosto, secondo Neumeister, è l'imprescindibilità dell'osservazione diretta del reale che apparenta, in un territorio poco praticato dalla critica, la vocazione tanto di Nietzsche che di Leopardi a una concezione del pensiero che, rispettosa del reale nella sua frammentarietà anti-sistematica, proceda per enunciazioni e giustapposizioni anziché per mezzo di un'impossibile sintesi. <<Filosofia senza sintesi>> e <<contraddizione non dialettica>>, non a caso, sono definizioni coniate per Leopardi da Luigi Baldacci, singolarmente vicine a quelle formulate da Maurice Blanchot per Friedrich Nietzsche. E se il <<blanc indéterminé>> che <<ne sépare pas, ne réunit pas>> le sequenze del discorso filosofico, rispettoso dell'<<esigenza di discontinuità>> del reale, è il sintomo della modernità di Leopardi e di Nietzsche in quanto essenza stessa della modernità, <<un abisso>>, secondo Neumeister, separa i due pensatori che simbolicamente aprono e chiudono l'Ottocento. Più che filosofo, Leopardi può essere considerato uno dei più grandi moralisti europei, perché l'asistematicità del suo pensiero non è il risultato di una incapacità o di un disordine, ma l'inevitabile scacco cui lo conducono, da una parte, la volontà di allestire una "scienza dell'uomo" in forma di aforismi esemplato sul modello cinquecentesco di Guicciardini (l'attenersi <<alla cognizione della natura umana>>, mirando a <<discorrere intorno ai fatti>> anziché limitarsi a <<narrarli per odine, senza pensare più avanti>>) e, dall'altra, il suo realismo senza illusioni. Nietzsche, invece, poiché non si accontenta come Leopardi dell'analisi morale dell'egoismo umano, pur avendo esordito da "moralista" perché osservatore dei costumi e della contemporaneità, ad un certo punto rescinde ogni contatto con il mondo circostante. Così, mentre Leopardi si rifugia nel suo esilio napoletano per dedicarsi alla stesura dei Pensieri, pubblicati sette anni dopo la sua morte da Antonio Ranieri, per l'ultimo Nietzsche, che avverte ormai l'insufficienza di ogni prosa, tanto sistematica o argomentativa che aforistica, quello che si schiude, ai limiti della ragione e ai limiti della follia, è l'orizzonte dell'infinito. A lui perciò, più che a Leopardi e più modernamente, forse, il <<naufragare è dolce>>, oltre il linguaggio della stessa poesia delle Canzoni del principe senza legge, negli abissi di un mare "aperto", dove la più perfetta forma di comunicazione è il silenzio.
Delia Garofano