L'astrattismo concreto di Petrassi
Si è diplomato che aveva quasi trent'anni Petrassi, nato a Zagarolo nel 1904, ma il destino gli ha concesso di recuperare il ritardo, visto che oggi intravede il traguardo del secolo con lucida consapevolezza intellettuale e con un catalogo lungo così. Aveva ricevuto i primi rudimenti musicali alla Schola Cantorum di San Salvatore in Lauro in una Roma ancora papalina, cantando la stessa musica che quattro secoli prima cantavano i suoi coetanei, e aveva trovato impiego ancora adolescente in un negozietto di musica in via della Stelletta poi trasferito in via del Corso, dove ebbe modo di procurarsi le ultime novità della musica contemporanea e di conoscere intellettuali e musicisti come Casella, Onofri e il suo maestro Bustini. Forse è stato proprio quell'approccio anticonformista con la materia a rendergli facile il rifiuto del monopolio melodrammatico e altrettanto spontaneo il superamento del provincialismo che affliggeva i compositori italiani.
L'evoluzione dello stile di Petrassi prende le mosse da un costruttivismo neoclassico che può ricondursi al barocco romano, e dopo neanche un decennio di esperienza teatrale (due balletti e due atti unici, dal 1942 al 1950) durante il quale - secondo Massimo Mila - vengono abbandonate sulla scena le esigenze narrative, il compositore assicura alla sua musica una autonomia totale, esonerandola da impegni semantici: le note smettono di riferirsi ad altro per esprimere qualcosa e acquistano un significato compiuto nel puro gesto sonoro. È l'approdo a una dodecafonia non strettamente osservante, a un contrappunto ritmico che rinuncia al tematismo e tende all'essenziale.
Questa conquista si manifesta in pieno a partire dalla Récréation concertante (1953, il Terzo degli otto Concerti per orchestra) e anche laddove la musica sembra rispondere a una commissione celebrativa, risulta difficile riconoscervi un significato che non sia riconducibile al valore musicale. Come nel caso del Settimo concerto, eseguito alla Prima Rassegna di Musiche per la Resistenza tenutasi a Bologna nel 1965, del quale Petrassi racconta la genesi in termini assolutamente "tecnici": "Un'orchestra giovanile americana (la Junior Symphony Orchestra di Portland) mi aveva commissionato un'opera, domandai quali fossero le caratteristiche di quell'orchestra e mi fecero sapere che si trattava di una formazione eccellente, della quale mi descrissero anche taluni caratteri specifici. Io scrissi conseguentemente il pezzo con una mentalità un po' didattica, articolandolo in un prologo e cinque invenzioni, ciascuna delle quali era dedicata a una distinta sezione orchestrale: archi, ottoni e così via. Alla fine le varie sezioni si riunivano in un epilogo. Quando ascoltai la registrazione che mi venne inviata dagli Stati Uniti, la trovai spaventosa, orribile, non so se a causa dell'esecuzione o a causa della musica; decisi comunque di rifare completamente il pezzo che divenne il Settimo concerto per orchestra".
Ciò che sorprende leggendo la partitura è la prevalenza degli spazi bianchi: raramente Petrassi impiega al completo l'organico, che pure è grande. Al prologo, in cui si espone il materiale sonoro, seguono quattro variazioni o invenzioni sul materiale dato: nella prima vengono coinvolti ottoni, archi e timpani; nella seconda legni e percussioni; nella terza archi e xilomarimba; nella quarta tutti; l'epilogo è un perentorio accordo dei fiati. Il procedere verso l'assottigliamento dell'articolazione timbrica e la mancanza di effetti sonori massicci creano uno spazio di grande intimità, e nell'abolizione della dialettica tematica si realizza una sorta di "astrattismo concreto" che non rinuncia a momenti lirici, come ad esempio l'episodio degli archi collocato nel bel mezzo della cadenza rapsodica della xilomarimba.
È musica che ha i suoi anni, e si sentono tutti, ma ascoltandola oggi si ha l'impressione che dopo un secolo di comparsate la musica strumentale italiana sia tornata allora da protagonista sulla scena europea.
Filippo Fonsatti (da www.sistemamusica.it)