La "protest music" di Dallapiccola
"Nel giugno 1939 si volle andare, mia moglie ed io, a Parigi, per vedere ancora una volta, in un momento così grave di incognite, una città a noi particolarmente cara. Gli avvenimenti precipitavano. […] Pure la vita continuava col suo ritmo normale: né prima, né dopo il 1939 ho veduto Parigi così gaia e accogliente. E sul lungo Senna, come sempre, si vendevano i libri usati. Fu così che acquistammo le opere del conte Villiers de l'Isle-Adam e mia moglie, nel viaggio di ritorno, mi segnalava il racconto La torture par l'espérance come possibile trama per un'azione scenica; forse, diceva, per una pantomima. […] Passavano i mesi e gli eventi maturavano. Mi appariva sempre più chiara la necessità di scrivere un'opera che, nonostante la sua ambientazione storica, potesse essere di toccante attualità; un'opera che trattasse la tragedia del nostro tempo, la tragedia della persecuzione, sentita e sofferta da milioni e decine di milioni di uomini. L'opera sarebbe stata intitolata Il prigioniero, semplicemente. Mi sarebbe sembrato di limitare il problema, ormai comune a tutti gli uomini, accettando che il protagonista fosse il rabbino Aser Abarbanel che incontriamo nel racconto…".
Le parole di Dallapiccola dicono soltanto una delle varie fonti letterarie e autobiografiche del suo secondo lavoro teatrale: oltre al racconto citato - usato come equazione metaforica inquisizione spagnola = totalitarismi del Novecento - altri due di Charles de Coster e Victor Hugo, il frammento di una poesia infantile di Lisa Pevarello, tre Salmi della Bibbia. E poi tutto il vissuto, recente e remoto: il confino della sua famiglia istriana a Graz, nel 1917, l'intuizione dei primi campi di concentramento, la promulgazione delle leggi razziali che costrinsero alla clandestinità la moglie Laura, la distruzione della guerra, l'ascolto segreto di Radio Londra. Al 1943 risale la stesura del libretto, al 10 gennaio dell'anno successivo la prima idea musicale quindi, dopo un lungo stop, la parola "fine" in calce alla partitura il 3 maggio 1948.
La vicenda si svolge in Spagna nella seconda metà del XVI secolo. In una cella dell'Oficial di Saragozza giace il prigioniero, sotto processo al Tribunale dell'Inquisizione, accanto alla madre, alla quale confida che le parole dell'unica persona con cui abbia a che fare, il carceriere, sembrano dargli qualche speranza: questi si rivolge a lui chiamandolo "fratello", alimentando fiducia nella vita e fede nella preghiera. Per la madre la descrizione delle torture inflitte al figlio è il presentimento che si tratti del loro ultimo incontro. Il carceriere esorta il prigioniero a sperare, raccontandogli i successi della rivolta dei pezzenti contro la tirannia spagnola nelle Fiandre di Filippo II. Uscendo dalla cella il carceriere dimentica di chiudere la porta, consentendo la fuga al prigioniero. Dopo avere eluso due sacerdoti e un fra' redemptor armato di strumenti di tortura il prigioniero sbuca in un grande giardino sotto il cielo stellato. L'illusione della libertà dura pochi istanti: sotto i rami di un cedro le braccia del grande inquisitore (lo stesso carceriere) afferrano le sue pronunciando ancora una volta la parola "fratello". E quindi il prigioniero viene accompagnato verso la speranza più atroce che è l'ultima tortura: il rogo.
Dal punto di vista musicale Dallapiccola lavora su tre serie dodecafoniche le cui molteplici combinazioni contrappuntistiche si dispongono in forme chiuse, pur senza interrompere il flusso dell'opera. Quella del Prigioniero è una struttura a "stazioni", una sequenza sintetica di scene, ciascuna delle quali possiede una propria connotazione drammatica e musicale ed è collegata alle scene contigue da interludi orchestrali: in partitura sono indicati una ballata, due intermezzi corali, un'aria in tre strofe e tre ricercari. I densi contrappunti, i canoni per moto retto e contrario, aumentazione e diminuzione movimentano un plot che tutto pare fuorché teatrale. Ma la dodecafonia seppure intrisa d'espressionismo è temperata dall'adozione di centri tonali che stabiliscono polarità di riferimento, dando vita a un bilanciato equilibrio tra serie (e relative elaborazioni canoniche) e relitti tematici tonali usati drammaticamente. Una dodecafonia temperata che piacque anche a Schoenberg. E che ancora oggi risulta aggiornatissima e nello stesso tempo comunicativa alle nostre orecchie, così smarrite e confuse da contaminazioni e omologazioni.
Da www.sistemamusica.it