Il segreto valzer di Brahms: due Concerti e una Sinfonia che danzano
Se si posa l'orecchio, delicatamente, sul petto ansimante del Primo concerto per pianoforte di Brahms, si riesce a cogliere per qualche istante una pulsazione leggera, un battito regolare, nascosti nel suo "cuore segreto". È un piccolo tema, di cui quasi non ti accorgi se vai troppo di fretta, che si apre all'improvviso, come un taglio di luce azzurrina, in quella che Hugo Wolf ha definito «aria umida e ghiacciata». L'orchestra ha attaccato forte, con energia, il motivo principale dell'introduzione e si è già lasciata alle spalle il secondo tema, canonicamente lirico e interrogativo. Ma alla misura quarantasei entra in scena un ospite inatteso, un terzo tema, antenato di quei discendenti che sarebbero comparsi, alcuni anni più tardi, nelle Sinfonie di Anton Bruckner. Dal re minore iniziale il vocabolario armonico si apre sulla pagina del si bemolle minore e gli archi espongono una melodia in sei quarti, dolcemente arcuata e inequivocabilmente danzante. Ma è solo la premessa, e al tempo stesso la promessa, del rasserenamento futuro. Infatti, molte misure più avanti, esattamente alla numero duecentottantasette, quando il pianoforte ha già intonato con discrezione le sue seste parallele, il tema di danza si presenta con una trama nuova che lascia però intravedere l'ordito originale: il sei quarti sembra camminare con un nuovo passo, dimezzando il valore del numeratore, la melodia è cantata ancora dai violini, ma questa volta le viole scandiscono il rintocco del pizzicato, mentre il pianoforte traccia, in pianissimo, pochi, sapienti disegni ornamentali. E nel ductus ritmico del "raggio di luce" si distingue, con chiarezza abbagliante, la cadenza ansiosa e leggera di una creatura inattesa: il valzer.
Questi pochi tratti di penna non sono certamente i più appariscenti, né quelli cruciali, del "concerto per caso" che Brahms scrive, col consueto corredo di indecisioni e pentimenti, nel lungo arco di tempo che va dal 1854 al 1858 (il quadro finito del Concerto sorge infatti dal cartone preparatorio, scritto per due pianoforti, di una sinfonia che non nascerà mai). Nel Tempo di valzer che si stende come un velo leggero tra l'esposizione e la ripresa del tema principale del Maestoso si nascondono però i due veri e propri "motori primi" del pensiero musicale di Brahms: da un lato la presenza carsica, ma costante, del "tempo di valzer", la pulsazione ritmica che ricorre più frequentemente nella sua musica per pianoforte, nei quartetti, nei sestetti, nelle sinfonie, nei concerti. Sull'altro versante la pratica, ricorrente, quasi idiomatica, della variazione, forse l'autentico "principio causale" del pensiero compositivo brahmsiano.
L'intarsio finissimo tra valzer e variazione, che compie il miracolo di sottrarre alla danza la sua vaporosa naiveté e all'ars variandi la sua inalienabile seriosità, non è certo, nel catalogo delle opere di Brahms, una decorazione cucita con la mano sinistra. Anzi, al contrario, costituisce la trama profonda della maggior parte dei suoi "numeri", dai più acerbi ai più maturi. Ma c'è qualcosa di ancora più intimo nel legame tra queste due "pratiche": come sostiene con estrema acutezza Marina Caracciolo in un libro tanto recente quanto prezioso (Brahms e il valzer. Storia e lettura critica) è lo stesso procedimento del valzer, nel suo continuo gioco di affermazione e negazione, a costituire lo specimen della particolarissima tecnica della variazione adottata da Brahms: «Trattare il tema scelto facendolo ora balzare vivo in primo piano, ora, e più spesso, allontanandolo fino a lasciare una semplice e anonima struttura sulla quale costruire e affermare la propria individualità artistica».
Non desta dunque alcuna sorpresa il fatto che un tema di valzer sottilmente metamorfico costituisca la nervatura principale anche del movimento di apertura della Sinfonia n. 3 in re maggiore, nata quasi trent'anni più tardi rispetto al Concerto in re minore. Anche in questo caso il metro ternario della danse viennoise apre una "ferita di luce" nel muro compatto sollevato dal tema iniziale: dopo i tre accordi dei fiati, densi e smaltati, che traducono in forma sonora il motto ideale di Brahms («froh aber frei», «felice, ma libero») il tema principale intonato dai violini sembra far cantare la Sinfonia a volte alta, stentorea, solenne. E invece, alla misura trentaquattro, i legni invertono la linea discendente dei violini ed espongono un motivo sorprendentemente disadorno e danzante, di sicura movenza ascendente. Ancora una volta si tratta di un invito: poche misure più tardi appare in scena, infatti, il secondo tema (Mezza voce, grazioso): un tipico motivo di laendler, nel metro di nove quarti, affidato al timbro "rustico", ma morbido, del clarinetto e del fagotto, accompagnati dal pizzicato dei violoncelli. Il passo leggero, e vagamente inquieto, del valzer interrompe dunque una volta di più la marcia un po' marziale e impettita del discorso sinfonico, aprendo vie di fuga, cammini imprevedibili, sentieri irregolari. Ma è proprio a questo punto che il "principe della variazione" – come lo definisce Alessandro Romanelli nel più piccolo libro su Brahms mai scritto al mondo – ricorre alle sue arti segrete. Dopo il rituale terzo tema ricavato dalla cellula germinale del primo l'esposizione si conclude, non senza un certo stridente vigore, con il fortissimo dell'orchestra a piena voce. Ma l'inizio dello sviluppo è segnato da un singolarissimo contrasto timbrico, armonico e cromatico: contro ogni prevedibile attesa è il secondo tema, il tema di laendler, a guidare la danza e a generare il "carattere" dell'intera sezione. Non si tratta certo di un "ritorno dell'identico", bensì di un nuovo, piccolo miracolo metamorfico: il profilo melodico rimane sostanzialmente inalterato, ma vengono profondamente variati gli altri parametri: l'intonazione è ora affidata ai violoncelli, alle viole e ai fagotti e lentamente il la maggiore lascia il posto al modo minore. Il passo di danza si fa leggermente esitante, l'aura espressiva si colora di mezze tinte, di ombre appena accennate, e la consueta vena "zingaresca" di Brahms affiora in superficie.
Ancora una volta, dunque, il valzer, insieme alle sue infinite variazioni, è per Brahms la voce che segna il confine, che separa gli opposti, che marca con precisione le antinomie dell'espressione. E non poteva dunque non ritornare, in limine, anche in una delle più enigmatiche opere del congedo, l'ultima grande pagina concertante, il Doppio concerto per violino e violoncello del 1887. Nella parte centrale del movimento conclusivo, il dialogo virtuosistico e pungente tra i due strumenti viene interrotto quasi bruscamente dal sorgere, relativamente inatteso, di un terzo tema, in metro evidentemente ternario, che contrasta in modo piuttosto ruvido con il tema precedente, convenzionalmente ampio e cantabile: il passo regolare, ma zoppo, quadrato, ma claudicante del "moderno" valzer viennese è tornato ancora una volta ad affacciarsi sull'orlo dell'abisso: non è ancora tempo per lasciarsi attirare irresistibilmente dal vuoto, ma il lieve vortice della vertigine comincia già ad afferrare le tempie.
Guido Barbieri (da www.sistemamusica.it)