Il problema Mendelsshon
Nel 1974 un importante musicologo, Carl Dahlhaus, curò una raccolta di saggi, con contributi di vari autori, scegliendo per titolo Das Problem Mendelssohn, un'espressione alquanto singolare, ma che giungeva dritta al cuore della questione.
La figura di Mendelssohn continuava a costituire un problema per la scena musicale tedesca, e di conseguenza internazionale, nonostante che fosse trascorso oltre un secolo dalla sua morte. Ma qual era il problema? Quale imbarazzo culturale poteva ancora rappresentare, negli anni Settanta, la figura di un musicista nato e vissuto nella prima parte dell'Ottocento?
La verità è che il "problema" non era costituito tanto da Mendelssohn, quanto dall'ascesa e dal crollo in Germania di un intero sistema culturale, che aveva fondato la propria identità sull'odio, sul pregiudizio e sulla rivalsa nei confronti di persone come lui, colpevoli essenzialmente di essere d'origine ebraica.
L'antisemitismo era il problema, che la posizione unica di Mendelssohn nella storia della musica tedesca rendeva ancora di sofferta e bruciante attualità nel dopoguerra di Berlino.
In vita, nessun altro musicista aveva attratto tanta ammirazione e goduto di tanta stima quanto Mendelssohn. La sua rilevanza sulla scena musicale tedesca ed europea del primo Ottocento fu indiscutibile, fino al punto di costringere il re di Prussia quasi a pregarlo di accettare una carica ufficiale.
Come pianista fu l'idolo dei salotti; come direttore formò l'orchestra moderna e le diede un metodo di lavoro; come insegnante fondò il primo Conservatorio tedesco; come uomo di cultura restituì ai cristiani, lui ebreo di nascita,la loro musica più grande, riportando in vita, a distanza di un secolo, la Passione secondo Matteo di Bach.
Mendelssohn fu insomma in Germania la figura centrale della generazione romantica, in una dimensione ancora più completa di quanto non fosse quella di Berlioz in Francia.
Attaccare Mendelssohn di fronte era impossibile. Appena dopo la sua morte, però, iniziò la lenta e corrosiva azione della critica più o meno velata alla sua musica, per scalzare dal piedistallo la figura che i suoi stessi critici avevano elevato in precedenza a monumento vivente, con fastidio dell'uomo in carne e ossa.
La storia imboccò una direzione tale che il monumento autentico a Mendelssohn, davanti al Conservatorio di Lipsia, fu abbattuto dai nazisti nel 1936. Wagner vide in lui il grande nemico.
Il pensiero di Mendelssohn lo ossessionò fino al giorno della sua morte, più di trent'anni dopo, con risvolti diremmo oggi psicoanalitici.
La storia inventata da Jiri Weil nel romanzo Mendelssohn è sul tetto è perfetta. Julius Schlesinger, aspirante ufficiale delle SS, ha ricevuto l'ordine di rimuovere dal tetto della sala da concerti di Praga la statua di Mendelssohn. Memore dei corsi di "scienza razziale", Schlesinger indica ai suoi uomini di rimuovere il busto dell'uomo col naso più grosso, ma si accorge con disperazione che la statua che sta arrivando a terra è quella di Wagner.
Non è che i guasti di un secolo di menzogne, ingiustizie, disonestà intellettuale e infondatezze critiche si riparino dall'oggi al domani.
La figura di Mendelssohn è ancor oggi illuminata da una luce imprecisa e inadeguata, malgrado siano stati compiuti molti passi importanti per restituire alla sua musica il rango che le compete nella storia.
Il pianoforte di Mendelssohn, per esempio, è ancora da ripensare profondamente. Bene ha fatto l'Unione Musicale di Torino a imperniare su questo strumento il progetto dedicato all'autore, articolato in vari concerti, anche delle prossime stagioni.
Alcuni tra i migliori solisti della nuova generazione ripropongono il pianoforte di Mendelssohn nelle sue varie dimensioni: da solo, con l'orchestra e nella musica da camera.
Sulla tastiera di Mendelssohn si sono incrostati nel tempo interpretazioni e giudizi critici di sconcertante superficialità.
Ancor oggi si può leggere, in una guida al repertorio pianistico di recente pubblicazione, che nella sua produzione «ricorre sovente un virtuosismo brillante ed esteriore di marca Biedermeier».
Persino Eric Werner, il primo studioso a scrivere una biografia riparatoria su Mendelssohn, esprimeva sul suo pianoforte critiche sconcertanti.
Si cita sovente il famoso aneddoto di Rossini, che ascoltando suonare Mendelssohn disse «Sembra una Sonata di Scarlatti», come prova non dell'intelligenza del primo, ma dello stile antiquato del secondo. Rossini aveva ragione, come sempre, e riesce difficile pensare che per lui fosse un paragone negativo.
Scarlatti e Bach, l'arte della tastiera del Nord e gli antichi clavicembalisti italiani: queste sono le fonti dello stile di Mendelssohn, che era un autore formato in primo luogo dalla conoscenza della storia.
Ma non si trattava di un'erudizione fine a se stessa, estesa per altro fino ai moderni autori come Beethoven. Mendelssohn viveva la sua vasta e profonda cultura come un dialogo ininterrotto col presente, mescolando la tradizione con le forme e il linguaggio del suo tempo.
Le Romanze senza parole – traduzione non felice, ma ormai consolidata di Lieder ohne Worte – sono diventate nel tempo l'epitome della musica per signorine.
Senza dubbio l'ambiente all'interno del quale nascevano queste liriche mute, che aspiravano a rendere la cantabilità della voce umana sul pianoforte, era in buona parte connotato dall'elemento femminile, com'è testimoniato per altro dalle dediche di parecchi fascicoli. Ma gli ultimi sono pensati solo per sé, per esempio, e comunque rimarrebbe arduo includere un'artista come Clara Schumann nell'elenco delle "signorine".
Nella forma breve Mendelssohn racchiude spesso un mondo intero, con la capacità di sintesi di uno sguardo educato a cogliere l'immagine netta.
L'emozione, per quanto vibratile e palpitante, viene espressa in un linguaggio musicale di solida struttura, dolcemente contrappuntistico.
Il virtuosismo, preteso Biedermeier, era certo uno degli elementi del successo della sua musica e del suo modo impeccabile di suonare.
I pezzi di carattere, in cui il pianoforte rifulge sull'orchestra, come nel lirico Serenate und Allegro o nel Rondo brillante, appartengono senza dubbio al gusto di un'epoca, e in ciò sta il loro limite.
Stupisce, però, che così pochi interpreti siano stati capaci di cogliere sotto questa patina luccicante, mascherata con l'attitudine estroversa, la profonda inquietudine che anima il vorticoso mulinello delle scale e degli arpeggi.
Il carattere di Mendelssohn appare col passar del tempo sempre più lontano dall'immagine risolta e rassicurante che la tradizione ottocentesca ci ha restituito.
In realtà ci sembra di vedere in lui l'unico adulto in un mondo di autori adolescenti, totalmente concentrati sulle proprie ossessioni e insicurezze.
Mendelssohn, sentendo il peso di responsabilità maggiori per un artista della sua epoca, domina l'ansia e ricaccia sul fondo l'angoscia.
La sua preoccupazione è di opporre i principi della civiltà al dominio dell'informe, che vedeva sorgere attorno a sé.
Per quanto un gigante, la sua lotta rimase impari, come le tragedie della storia hanno tragicamente confermato.
Oreste Bossini (da www.sistemamusica.it)