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Fra pittura e jazz

 

La rivista americana Jazziz nel numero di marzo 2001 ha dedicato un articolo alla mostra "Jazz and Visual Improvisation" organizzata dal Katonak Museum of Arts di New York. Jackson Pollock, Larry Rivers, Stuart Davis, Jan Michel Basquiat, Quattara e Roman Bearden sono alcuni degli artisti a cui la mostra ha dato spazio. In certe opere il titolo rimanda ad uno strumento jazz ("Drum"), in altre alla performance ("Uptown Sunday Night Session"); Quattara inserisce addirittura una foto di Miles Davis ("Homage to Miles").
Qui evidentemente i riferimenti sono espliciti, ma - al di là del rapporto formale jazz-immagine - quali linee, sconfinamenti e intrecci si possono individuare fra la musica afroamericana e le arti figurative?
Secondo Pierre Boulez "la nozione di tempo in musica è a senso unico; lo spazio in pittura è multidirezionale. "La tessitura ritmica del jazz, tuttavia, rompe i canoni tradizionali, si costituisce attraverso accadimenti, intrecci, sovrapposizioni, accelerazioni, contrazioni e implosioni, proponendosi costantemente come opera aperta, ossia - come scrive Umberto Eco - "un campo di possibilità interpretative come configurazione di stimoli dotati di una sostanziale indeterminatezza".
La relazione fra pittura e musica sembra emergere soprattutto nel ventesimo secolo. Fra gli innumerevoli esempi ricordiamo le vicende artistiche di Stravinskij e Picasso, non prive di analogie; gli studi di Paul Klee, che nelle sue lezioni al Bauhaus adottava termini come ritmo, polifonia, armonia, sonorità, intensità, dinamica, variazioni; gli esperimenti di John Cage e l'Happening (la prevalenza di suoni e rumori rispetto al linguaggio verbale); e ancora Fluxus, il flusso continuo fra musica, poesia e teatro, e via dicendo.
Negli anni '40 i pittori informali erano uniti dall'idea dell'avventura totale, cercavano l'espressività della materia, ne evidenziavano la struttura, la malleabilità, costruendo e disfacendo: era un chase al caso, emozionante e inquietante perché aggressivo e imprevedibile. Come non pensare al bebop? Fra le aggressioni di un Pollock che disponeva la tela sul pavimento, facendo sgocciolare il colore con la sua tecnica di dripping, muovendosi attorno-dentro l'opera per finire - usando le sue parole - "letteralmente nella pittura" si può costruire una diade con Charlie Parker, per quel fraseggiare isterico con lo strumento/pennello, per l'audacia e l'assoluta padronanza e istintività. Si potrebbe osare anche con il free jazz di Ornette Coleman (nella copertina del disco omonimo, fra l'altro, è riprodotta la foto di un quadro di Pollock) dimenticando date, per concentrarci solo sull'invenzione assoluta.
I nuovi ritmi di Kenny Clarke fra continuità del flusso ritmico e discontinuità di una punteggiatura sempre diversa, richiamano certi quadri di Mondriaan; entrambi maestri del tempo e dello spazio, sviluppano il lato vitale pur attenendosi entro limiti precisi. Il linguaggio apparentemente semplice del pittore è in realtà complesso e articolato nella ricerca di sottili equilibri strutturali. Là dove s'innesta un rosso, il tom-tom di Clarke segue con tocchi imprevisti la voce del solista. Precisione e gestualità perfetta, ma anche energia, sono qualità comuni ai due artisti.
Associazione meno ardita potrebbe essere quella tra la pittura contemplativa e pulsante di Mark Rothko e la musica dal tocco sensibile e limpido di Bill Evans: lunghe frasi sonore; velature formate da microvibrazioni che conferiscono luce; la dolcezza anche nel forte; la sincope che non s'impone ma germina discretamente lungo melodie (e trasparenze) piacevoli.
Non si può non notare la coincidenza, anche se sfumata, delle evoluzioni e soluzioni espressive di una data epoca. Ritmi tracciati e pitturati, ritmi scanditi dalle pause e dalle note.

 

Isabella Mei (da www.allaboutjazz.com/italy)