Considerazioni sui due Finali del Macbeth
E' noto che la versione del Macbeth a tutt'oggi abitualmente rappresentata, è quella parigina del 1865. Il primo allestimento dell'opera era infatti andato in scena a Firenze il 14 marzo 1847, con grande successo. Già poco dopo, tuttavia, si cominciò a parlare di una traduzione francese. La cosa giunse infine a realizzarsi a partire dal 1864, grazie all'interessamento di Léon Carvaille, direttore del Thèâtre-Lyrique, e di Léon Escudier, editore di Verdi per la Francia.
Come spesso accade quando ci si riavvicina a un'opera scritta diversi anni prima (nella fattispecie quasi venti), debolezze vere o presunte del lavoro si evidenziano immediatamente, inducendo l'autore, come nel caso del Macbeth, a revisioni anche profonde. Operazione non facile, e insidiosa, sia per la necessità di porre mente locale su un materiale ormai intellettualmente distante, sia per il pericolo di contaminazioni espressive del tutto anacronistiche.
Verdi era ben consapevole di questi pericoli, come traspare da una sua lettera a Escudier: « [...] Non potete immaginarvi come sia noioso e difficile di rimontarsi per una cosa fatta altra volta, e trovare un filo rotto da tant'anni. Si fà presto a fare, ma io detesto in musica i Mosaici. Patience, patience, patience».
Gli interventi e le aggiunte del compositore furono numerosi e di vasta portata, con l'eccezione del primo Atto che rimase praticamente intatto. Le recenti riprese, anche discografiche, della versione originale, consentono di meglio stabilire l'incidenza di tali modifiche, nonché i loro effetti espressivi. A parte comunque ogni giudizio complessivo, di particolare rilevanza ci sembra il confronto tra i due Finali d'opera. Cosa tanto più interessante in quanto Verdi sin dal primo momento aveva previsto, oltre all'aggiunta di un balletto, la sostituzione della morte in scena di Macbeth, con un coro.
Questo cambiamento, sollecitato anche dagli ambienti parigini, era con ogni probabilità dovuto al desiderio del compositore di attenersi alla fonte originale, cioè il dramma di Shakespeare, forse anche per evitare critiche da parte del pubblico francese, ottimo conoscitore della fonte inglese.
Infine è intonata da Macbeth ormai morente, la cabaletta (scena ultima: «Mal per me che m'affidai»), del tutto atipica rispetto alla prassi corrente. In una lettera al baritono Varesi (il Macbeth della prima versione) del gennaio 1847, Verdi scriveva: «Ora non manca che l'ultima scena la quale consiste per te in un Adagio quieto cantabile, ed in una morte brevissima: ma non sarà una di quelle morti solite, sdolcinate, etc. Tu capisci bene che Macbetto non può morire come muoiono Edgardo [Lucia di Lammermoor, n.d.r.] e simili. In somma [sic] bada alle parole, ed al soggetto: io non cerco altro. [...] ».
Appare chiaro come il musicista, pur conservando esteriormente lo schema della «solita forma», prosegua sulla via aperta da Bellini e Donizetti, verso una sempre maggiore coerenza drammatica delle strutture musicali. Nel caso specifico l'aria finale si amplia grandemente nel tempo di mezzo, così ricco di eventi e di azione, mentre riduce le parti solistiche, soprattutto la cabaletta, a brevi ma interiormente dense espressioni liriche, senza alcun cenno di vocalità spinta o virtuosistica.
Nella versione del 1865 le cose cambiano radicalmente. La cabaletta finale di Macbeth viene tolta, sostituita da un inno conclusivo di vittoria. L'usurpatore non muore più sulla scena riconoscendo le proprie colpe, ma la sua testa viene portata infissa sulla lancia di Macduff.
Le conseguenze musicali e drammatiche sono notevoli. La Scena e aria di Macbeth si trasforma praticamente in un concertato (in parte lo era già) con il cantabile iniziale immutato ma ormai definibile come romanza, non essendo più seguito dalla cabaletta. Verdi è chiaro al riguardo: «Dopo la Romanza del baritono fino alla fine tutto è nuovo; e vi è la descrizione della Battaglia [una fuga] e l'Inno finale».
Soprattutto però nessuno dei due protagonisti, la Lady e Macbeth, è più in scena. E questo secondo noi si presta indubbiamente ad alcune considerazioni, indipendentemente dal fatto che il nuovo concertato finale possa o meno definirsi manieristico o strettamente convenzionale. Verdi stesso del resto, pur avendo optato per la nuova versione, era conscio dei problemi che la scelta comportava: «Sono io pure del parere di cambiare la morte di Macbeth, ma non vi potrà fare altro che un'Inno di vittoria: Macbeth e Lady non sono più in scena, e, mancando questi, poco si potrà fare con parti secondarie».
Strano atteggiamento quello del compositore, che sembra rassegnato agli inevitabili limiti della nuova versione. E infatti non vi è dubbio alcuno, almeno secondo la nostra opinione, che sul piano drammatico se quello del 1865 è un finale in parte anonimo e di circostanza, quello del 1847 si inserisce invece nel solco che sarà poi di opere grandemente innovative, come il Rigoletto.
Bruno Gallotta