Brahms e la Scuola di Vienna: e luce fu
Il segreto (che per la verità assomiglia molto a quello custodito dalla celebre maschera napoletana) è racchiuso, come sempre accade, nei libri sacri. Più precisamente in due degli apocrifi, ma religiosissimi "evangeli" che racchiudono il verbum del pensiero musicale novecentesco: Stile e idea, ossia il vangelo secondo Arnold (nel senso di Schoenberg) e La via verso la nuova musica, vale a dire il vangelo secondo Anton (nel significato, più "modesto", di Webern). Per cogliere il mistero, ci mancherebbe, non occorre certo posare la lente dell'esegeta su ciascuna pagina dei due tomi: è sufficiente e al tempo stesso lecito ricorrere alla scorciatoia, assai poco rigorosa occorre ammetterlo, del prosaico indice dei nomi (si sa, questi vangeli moderni non sono più quelli di una volta): provate a far scorrere il dito fino a trovare, in coda a ciascun volume, il nome di uno dei santi protettori acclarati dei due evangelisti, San Giovanni Brahms da Amburgo, e anche voi, in un lampo, "vedrete la luce".
Il verbo di Padre Arnoldo da Vienna contiene, come tutti sanno, uno dei più icastici e sfolgoranti ritratti che mai siano stati dedicati al creatore del Canto del destino: «A quanto pare - si legge nelle righe conclusive - si sono già fatti dei progressi in questa direzione, progressi verso il libero linguaggio musicale, quel linguaggio libero di cui fu iniziatore Brahms il progressivo». Laddove si assiste alla creazione del primo marchio pubblicitario, vero e proprio "logo", mai riservato a un compositore della onusta e severa tradizione ottocentesca: un brand, come dicono quelli che l'inglese lo macinano giorno e notte, che rimarrà appiccicato alla barba gloriosa del vecchio Johannes per buona parte del secolo appena svanito. La parola di fratel Antonio da Vienna (la comune provenienza dei due evangelisti sembra non essere casuale) non è al solito così apodittica e asseverativa come quella del Maestro, e si limita, almeno in apparenza, a una valutazione freddamente tecnica dei miracoli di San Johannes: «Sviluppare da un pensiero principale tutto il resto! Ecco la connessione più forte […]: cercare di rendere sempre più fitta e serrata la connessione e così ritornare al pensiero polifonico. Uno speciale rilievo possiede sotto questo aspetto Brahms». Ma qualche anno più tardi anche l'algido Antonio si lascerà andare a un più sonoro moto d'entusiasmo: folgorato dalla studio e dalla concertazione del Canto delle Parche scriverà, quasi sotto dettatura del Maestro Arnoldo, che «musica più moderna, o meglio proiettata in avanti, verso il futuro, non è mai stata scritta».
Per due dei tre custodi musicali del Wienergeist, lo spirito viennese del Novecento sopravvissuto miracolosamente al crollo dell'Impero (il terzo, Alban Berg è per sua natura più incline al fare che al dire), il volto rotondo e dolce del vecchio Brahms rappresenta dunque il simbolo squisito e instancabilmente progressivo di una "modernità" mai come in quel volgere di anni messa duramente alla prova. Destino curioso e anche un po' baro per l'autore del Deutsches Requiem che fino a una generazione prima era stato frettolosamente annesso al partito dei conservatori per via del sua supposta e reclamizzata avversione nei confronti dell'assai progressista e, anzi si dirà di più, "rivoluzionario" dramma wagneriano. E che un paio di generazioni dopo, in barba (ancora lei) alla predica dei viennesi, sarebbe stato canonizzato come la punta di diamante di un Classicismo, sì, certo, attraversato da capo a piedi da romantik e neue bahnen, ma pur sempre irrimediabilmente incatenato alle forme arcaiche del tardo Romanticismo.
In che cosa consiste dunque, esattamente, lo spirito irresistibilmente "progressivo" che secondo i viennesi trascina con prepotenza lo stile di Brahms nelle spire del Novecento? La risposta che generalmente viene data, frutto di una lettura evidentemente affrettata e scarsamente filologica dei "testi sacri", sarebbe racchiusa in una formula magica e un po' esoterica, anch'essa discretamente baciata dalla fortuna del brand: "variazione di sviluppo". Brahms si sarebbe cioè guadagnato il ricercatissimo lasciapassare per la modernità mettendo a punto una tecnica della variazione che tendenzialmente poteva e doveva essere applicata a tutti i parametri della scrittura (altezza, durata e timbro dei suoni), aprendo così la strada al procedimento della "variazione integrale", la vittoria finale, cioè, contro la polverosa "elaborazione tematica" ben predicata e ancor meglio razzolata dal vecchio Beethoven.
A ben leggere e a ben interpretare, però, il magistrale verbo schoenberghiano e l'ancillare parola weberniana sono al tempo stesso assai più prudenti e assai più divinanti. I tre quarti buoni dell'articolo pomposamente intitolato a "Brahms il progressivo" (proprio nel senso delle leopardiane "magnifiche sorti e progressive") è in realtà dedicato a una questione che non potrebbe apparire più lontana dai pur numerosi terreni di battaglia frequentati da Brahms: il teatro musicale. La straordinaria abilità del compositore nell'andare dal piccolo al grande, nell'elaborare frasi ampie e periodi complessi variando all'infinito un "vocabolario di base" fatto di poche parole non è una qualità più che tanto impressionante - argomenta il dottor Schoenberg - finché rimane confinata nel dominio della musica strumentale. «Per quanto ciò possa risultare curiosa - affila i denti mister Arnold - le sue conquiste assumeranno particolare valore, infatti, quando si saranno fuse con la tecnica teatrale. Il compositore d'opera sarà allora in grado di rinunciare a una artificiosità tecnica che è un difetto non soltanto delle opere dei grandi pre-wagneriani».
Ecco dunque qual è il destino sconosciuto e misterioso (nemmeno le legittime Parche, si dice, ne sono state informate) della "variazione di sviluppo": non il terreno astratto e meramente tecnico della musica "assoluta" bensì la polvere, il sudore, gli inciampi e gli imprevisti delle tavole di un palcoscenico. Se l'ars variandi di San Johannes rimane soltanto una raffinata e abilissima tecnica compositiva non potrà mai sprigionare, secondo mastro Schoenberg, tutta la sua irresistibile carica "progressiva". Se invece viene applicata al gesto teatrale, se diventa il corpo e il sangue della "parola scenica" (Verdi non è stato invitato, ma un posto a tavola per lui lo si trova sempre), ecco che allora la "variazione continua" aiuta il compositore a uscire dalle sabbie mobili della ripetizione, della simmetria, della meccanicità: «Il compositore d'opera - chiosa ancora magister Arnoldus - potrà superare gli svantaggi metrici della prosa del suo libretto, e la produzione di melodie e di altri elementi strutturali non dipenderà più dalla versificazione, dal metro o dalla mancata possibilità di ripetizioni. […] Il cantante […] non sarà costretto a recitare su una sola nota, perché avrà a disposizione interessanti e varie linee melodiche».
Né padre Arnoldo, né fratel Antonio, come ben si sa, hanno tradotto in polvere e sudore l'utopia di questo "teatro delle idee" fondato non sul magistero della parola, bensì sul potere espressivo infinitamente superiore della variazione melodica. L'unico autentico viennese ad aver raccolto davvero l'idea del "teatro di variazioni" è stato il più silenzioso e pragmatico dei tre custodes: Alban Berg. Che cosa sono infatti Lulu e Wozzek se non il tentativo di tradurre in una logica puramente teatrale gli infiniti, rigorosi, generosissimi, progressivissimi procedimenti generati dalla sapiente ars variandi di San Johannes Brahms? Forse non appartiene alla schiera eletta dei "misteri maggiori", ma l'ultima pagina degli "evangeli viennesi" rivela un minuscolo segreto abbagliante.
Guido Barbieri (da www.sistemamusica.it)