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Berlioz & Ravel: musica cucinata ad arte

 

Volete conoscere il vero sapore di un prodotto naturale? Innanzitutto non consumatelo così com'è se non volete averne che una sbiadita apparenza. Bisogna lavorarlo e addolcirlo con artifici destinati […] a restituirgli il vero sapore.
Così prescrive una regola fondamentale della cucina francese, che ci informa non solo dei costumi alimentari di un popolo ma anche del suo più generale rapporto con il mondo. In questa semplice prescrizione ritroviamo infatti alcune delle tendenze più caratteristiche dell'esprit francese: la sfiducia nei confronti di una conoscenza "naturale" e il grande valore dato alla "presentazione" o, ancor meglio, alla rappresentazione accuratamente studiata. Sottolineare quest'indole alla messinscena non significa banalizzare una cultura, liquidandola come un contenitore di mistificazioni senz'anima, ma prendere atto di un atteggiamento conoscitivo e pratico. E bisogna ricordare che le radici della cultura "alta" francese affondano quasi esclusivamente nella storia sociale e politica della sua capitale: da quando, nel 1661, Lully fu nominato "Unico sovrintendente della musica del re", la legislazione del paese in materia culturale non ha mai perso la sua peculiare tendenza centripeta; di conseguenza gli artisti non hanno mai attinto energie e materiali dalla tradizione popolare, portatrice per sua natura di un rapporto più concreto e diretto con la realtà.
Ne scaturisce un atteggiamento unico nel suo genere. Per quanto possa suonare paradossale, che si tratti di cucinar patate o di rappresentare passioni umane, ogni cosa deve essere lavorata e ricostruita con art, atteggiamento che, perlomeno agli inizi dell'Ottocento, si traduceva in una produzione musicale sbilanciata verso il teatro.
Il ruolo giocato da questa particolare tendenza può sembrare marginale parlando di due "fuoriclasse" dell'orchestra, Berlioz e Ravel, che non si sono certo distinti come uomini di teatro. La radicata tradizione francese esercita un'influenza ben più sottile e profonda. La predisposizione nazionale alla rappresentazione stilizzata si tradurrà infatti con Berlioz in capacità di esplorazione dei territori onirici generati dalla nuova sensibilità romantica, sempre più svincolata dalle dinamiche concrete dell'esistenza. Priva dei mezzi strumentali della tradizione teutonica e dell'energia lirica degli operisti italiani, la Francia troverà in questo geniale compositore la sua personale interpretazione di un Romanticismo "senza crauti", come avrebbe detto in seguito Satie. La Mort de Cléopâtre, scena lirica con cui nel 1829 il compositore francese tentò per l'ennesima volta di vincere un concorso (tentativo andato a vuoto a causa delle tinte troppo "forti" del brano), colpisce principalmente per l'incredibile rappresentazione conclusiva della morte. Il ritmo spietato e incalzante dei contrabbassi che scandisce gli ultimi rantoli della regina è sostituito da intermittenti lampi di "luce" orchestrale, terribile pittura allucinata di un'anima ormai distaccata dal mondo.
Ma si deve aspettare l'inizio del Novecento perché le eteree eppur solidissime pitture musicali francesi assumano un ruolo predominante nell'esprimere il tormentato e nostalgico divorzio dell'artista dal mondo naturale. Le incantate sonorità orchestrali con cui Maurice Ravel avvolge l'amore di Daphnis et Chloé non si limitano a offrire un'immagine raffinatamente stilizzata dello scenario mitologico, ma arrivano a trasformarsi in giochi di luce attraverso cui si possono distinguere solo le sagome, suggestive ma distanti, dei personaggi in scena. Come evanescenti ricostruzioni della memoria, le vetrate colorate tipiche della Belle Epoque attraverso le quali Ravel ci mostra le vicende dei due amanti diventano l'unica finestra (ma quanto emozionante...) dalla quale vedere il mondo.

 

Alessio Tonetti (da www.sistemamusica.it)