Bartók e Shostakovich, questioni di identità
Sedici anni circa separano la prima esecuzione della Musica per archi, percussione e celesta di Béla Bartók avvenuta a opera di Paul Sacher e della Basler Kammerorchester il 21 gennaio 1937 e la Decima sinfonia di Dmitrij Shostakovich, la cui prima esecuzione ebbe luogo presso la Filarmonica di Leningrado sotto la direzione di Mravinskij il 17 dicembre 1953, anni nei quali l'intero mondo occidentale fu violentemente sconvolto e ne uscì diviso in due blocchi territoriali, politici e ideologici contrapposti. Già qualche anno prima, in occasione dell'attacco del regime fascista contro Arturo Toscanini, Béla Bartók aveva preso posizione per proteggere "l'integrità e l'autonomia dell'arte", si era rifiutato di tenere concerti in Germania e a partire dal 1937 aveva proibito ogni esecuzione e trasmissione radiofonica della propria musica in Germania e in Italia. Parallelamente in Unione Sovietica cominciava l'atroce persecuzione di artisti e intellettuali in nome della dottrina del realismo socialista, terminata solo dopo la morte dei due principali responsabili: Zdanov e, nel 1953, Stalin. Fra quelle due date si può tessere un filo, che si estende fino a oggi, in una situazione assai meno drammatica ma in un tratto simile: le identità culturali sono in pericolo all'interno del sistema globalizzato; come preservarle senza cadere nel provincialismo ma senza rinunciare al confronto con le forze che impongono il livellamento delle culture?
Bartók, insieme ad altri musicisti che venivano dalle regioni periferiche dell'impero, si trovava ad affrontare la crisi di una civiltà i cui esiti sentiva in gran parte estranei. Invece di limitarsi a esplorare i linguaggi e le forme che venivano altrove maturando, Bartók si mise in viaggio verso le profondità delle proprie origini, della cultura della sua terra, alla ricerca del contatto rigenerante con la natura spontanea della musica. Da lì trasse la sicurezza con cui percorse poi i molti sentieri della composizione senza smarrire il legame con l'identità culturale del suo popolo. Nella Musica per archi, percussione e celesta si incontrano forme storiche della musica occidentale quali la fuga o la sonata o il rondó, padroneggiate con la stessa perizia con cui Bartók fa uso del materiale folclorico: del fiume della lingua franca dell'Ottocento rimane solo il letto, ma ciò che vi scorre, entro argini di compostezza, è una linfa originale ed eccentrica. Il patrimonio musicale del popolo ungherese, bulgaro e rumeno non è mai citato direttamente, ma tutta la Musica per archi, percussione e celesta proviene da quel mondo senza apparenti mediazioni, e lo riscatta dal provincialismo. Bartók riesce a far propri alcuni temi dell'avanguardia storica costruendo ad esempio nel primo movimento una fuga che con l'intero circolo delle quinte percorre tutto lo spazio del totale cromatico, partendo però da melodie di spiccato carattere folclorico; e oltre le melodie e le armonie anche il modo di suonarle viene da una tradizione diversa da quella occidentale, eppure radicata nelle possibilità degli strumenti.
Anche Shostakovich al momento di comporre la Decima sinfonia si trova a tirare le fila di un lungo percorso creativo. In bilico fra le ragioni profondamente sentite del legame con lo spirito popolare e l'irrigidimento di questo legame nel canone opprimente del realismo socialista, Shostakovich reagisce alla morte del dittatore rivendicando la propria identità culturale; lo fa senza rinunciare a un espediente esoterico quale l'uso delle proprie iniziali (D.Sch) come motto musicale che permea tutta l'opera, ma accanto a esso ricorre a un repertorio semplice e chiaro fatto di melodie di ispirazione popolare, di musiche triviali, di trionfi del grottesco, che esplodono dalla desolazione del movimento lento iniziale, sia per esporre in modo emotivamente trascinante la propria indipendenza e autonomia dalla dittatura ideologica, sia per rivendicare un legame più autentico di quello soltanto formale con la tradizione popolare e con i valori di una civiltà a cui il compositore si sentiva indissolubilmente legato.
Francesco Antonioni (da www.sistemamusica.it)