Bartók e Bruckner, respiri nella natura
Non è questione di credere agli oroscopi. È che se a uno piacciono i numeri, i simboli, i codici, può essere incuriosito dalle coincidenze sulle date di nascita. E se è nato in settembre, e fa il musicista, va a guardare quali musicisti sono nati sotto il segno della Vergine (in realtà sotto tutt'altra costellazione, perché gli astrologi, testoni, non tengono conto della precessione degli equinozi). Troverà Bruckner, e Schoenberg, e Stockhausen. Oh, che minuziosa solidità teutonica. Ma c'è anche Charlie Parker (però, quanta precisione in quelle notine furiose). Comunque, se uno è nato nel mese della vendemmia, non farà molta fatica a riconoscersi in una certa terragna falcata da agrimensore, in uno sguardo contemplativo e puntuale, in una percezione del tempo modellata dall'estate che volge al termine. Essendo nato in settembre (chissà se è per questo), non ho mai provato per i tempi dilatati di Bruckner l'insofferenza di molti. Mi ci trovo benissimo, mi sono naturali. Hanno l'ineluttabilità del tempo atmosferico, più che quella del tempo cronometrico. Forse soprattutto nella Quarta, la Romantica (secondo la didascalia di suo pugno), la Pastorale (secondo la più frequente annotazione comparativa dei critici). C'è non solo il respiro lento, c'è anche la voce della natura.
Quando però penso alla natura, musicalmente, non penso a Bruckner: penso a Bartók. «Se mai dovessi farmi il segno della croce, vorrebbe dire "In nome della Natura, dell'Arte, della Scienza"» (lettera a Stefi Geyer, 1907). Il suo amore per il canto contadino era una conseguenza, non una premessa, dell'amore per la natura. Una musica incontaminata dalla civiltà urbana, vicina alla terra, quindi all'ordine delle cose. Il Concerto per violino (oggi noto con il n. 2) appartiene al periodo in cui Bartók costruiva il suo materiale musicale facendolo germogliare come se fosse un organismo vivente, a partire dai numeri di Fibonacci: non solo nell'organizzazione micro e macro-formale, ma anche nel materiale scalare. C'è pure un melodizzare popolare, ma non più come adattamento o riscrittura, quanto come emergere compositivamente virtuosistico delle strutture profonde: insomma, uno lavora matematicamente a comporre figure geometriche, e si ritrova in mano un fiore. E c'è un tempo diverso, nella musica di Bartók, c'è il brulichio della primavera (è nato a fine marzo: c'entrerà?), c'è un'ostinata pianificazione di proporzioni, la cui struttura profonda ci sfugge, ma che ci coinvolge. Curioso, no? Perché in Bartók si sente comunque l'umanità, un'umanità contadina stilizzata, che però si rivela nella sua essenza materiale (non materialistica), fatta di cellule, e più sotto di atomi, di numeri. Mentre in Bruckner dell'umanità (e della natura) c'è un'ombra, una traccia, e la vera consistenza è spirituale: è quell'intervallo di quinta che sembra scendere dal cielo e al cielo risalire. Un numero anche quello, però: tre diviso due, nella frequenza, come nel ritmo che appare insistentemente, due contro tre, il "ritmo di Bruckner". Avevo detto che erano diversi?
Franco Fabbri (da www.sistemamusica.it)