Anelito alla libertà. Verso l'opera totale
"Ogni epoca che ha studiato il corpo umano, o che ha provato almeno il sentimento del mistero di questa organizzazione, delle sue risorse, dei suoi limiti, delle combinazioni di energia e di sensibilità che contiene, ha coltivato, venerato la DANZA." (Paul Valery "L'anima e la danza")
Fin dalle più lontane origini l'uomo ha sempre danzato, ancor prima di parlare, perché ha sentito il bisogno di esprimersi con tutto il corpo e di muoversi, misurando lo spazio circostante ed inseguendo, attraverso il ritmo, il tempo, nella sua inarrestabile scansione.
In età primitiva la danza era preghiera, supplica, presso tutti i popoli era liberazione dall'angoscia primordiale, che permetteva di creare, inconsciamente, il bello o di ripetere gesti vuoti di senso. Ritrovata provvisoriamente la pace, danzavano, non per esorcizzarsi dal terrore, ma per la gioia di sentirsi improvvisamente esorcizzati. Questo rito continua a riprodursi in quei popoli che credono ancora nell'invisibile; ma purtroppo diventano sempre meno numerosi. Perdendo il senso del sacro, gli uomini lo sostituiscono con la convinzione di aver capito tutto e, superando la primitiva angoscia, diventano incapaci della creazione cosciente del bello. Nei popoli d'Occidente, dal Rinascimento in poi, c'è stata un'incessante ricerca di quella condizione remota. Ma il tempo perduto non si recupera mai: eppure tutti coloro che continuano ad avere paura cercano, senza sosta, di recuperarlo; mentre altri, più felici, hanno potuto considerare la loro paura ancestrale con l'occhio del poeta, o del saggio, o del creatore che, ispirato dalle forme, d'improvviso si accorge che sono belle.
Ne risulta un immenso "facciamo finta"!
Allora torniamo alle origini, instancabilmente, senza più crederci, ma cercando di credere che ci crediamo ancora. La vera magia, l'autentico invasamento sono scomparsi e si sono tradotti nella consapevolezza della forza magica della bellezza solo per coloro che hanno goduto di un'evoluzione armoniosa, di un'intelligenza sottile e di un clima dolce.
Ciò è vero per tutte le arti, ma in primo luogo per la danza, la più difficile a trasformarsi perché più intimamente legata alle primordiali angosce viscerali. Distrutte queste da una serie di convinzioni scientifiche, la respirazione e i movimenti, basandosi su quel nulla appena intravisto, dovettero trovare una nuova giustificazione totale, della bellezza che vince la legge di gravità. Nasceva così il balletto romantico.
Nel momento in cui fantasia e poesia si unirono in una visione idealisticae rinnovata della vita, quando l'uomo si liberò del mito e poté gestire liberamente la sua immaginazione, la danza arrivò a questa scoperta, basando la sua ferrea tecnica sulla leggerezza della ballerina e sulla verticalità dei passi, volendo dare l'illusione di un distacco da terra, se non addirittura del volo.
Quello della libertà è un sogno antico quanto l'uomo, ma tale condizione umana poteva prevalere e realizzarsi solo in una società moderna quale quella del Novecento. Epoca di transizione questa, che pone il soggetto al centro del mondo, ma che nello stesso tempo sottrae al soggetto il suo centro, perché dissolve il principio di identità nella ricerca continua, senza limite né scopo, in un'inarrestabile corsa verso la novità. Si assiste ad un proliferare di movimenti estetici, tutti controcorrente, tutti in opposizione alle regole. Proprio il teatro ha partorito le immagini più significative di questo secolo e forse, come afferma Nietzsche, è Riccardo Wagner il tipo esemplare dell'artista decadente, in cui si riconoscono tutte le debolezze e le infermità del secolo.
"Dove trovare pel labirinto dell'anima moderna una guida meglio iniziata, un più eloquente conoscitore di anime? Per mezzo di lui la modernità parla il suo linguaggio più INTIMO, non dissimula né il BENE né il MALE, avendo smarrito ogni pudore - Wagner riassume la modernità."
Ed il suo dramma come "opera artistica per eccellenza" riassume l'aspirazione alla totalità dei suoi contemporanei; cioè la musica come emozione continua, il dramma musicale moderno come compimento della tragedia greca, l'identificazione infine tra poesia-rima-ritmo e poesia-mito, racconto di fondazione dell'uomo ed esplorazione del presente attraverso il profondo pozzo del passato.
Anche la danza ha risentito di questo clima di rinnovamento estetico e tecnico, adattando i suoi principi alle esperienze di una cultura diversa, liberandosi dalle ferree leggi accademiche, senza distruggerle del tutto.
Si assiste ad una moltiplicazione di stili, di contro alle espressioni dell'ultimo Ottocento, in cui la cultura di danza era rimasta monolitica, e al proliferare di proposte di danza libera.
Tra i fondatori dell'arte nuova ricordiamo: Isadora Duncan, Jacques-Dalcroze, Rudolf Laban e Sergej Diaghilev con la grande esperienza dei Ballettirussi.
Isadora Duncan ha scosso dalle fondamenta la danza accademica, negandone sdegnosamente i principi primi.
Americana di origine irlandese, si trasferì in Europa perché negli Stati Uniti la sua danza non aveva avuto successo. Ed è naturale che la sua contestazione non avesse avuto risonanza lì dove non c'era un forte termine di confronto, mentre in Europa i principi che bisognasse danzare liberi, seguendo gli impulsi dettati da una musica non scritta per la danza, significava il rifiuto di un'era gloriosa, in un momento in cui spirava il vento dell'eversione ed era cominciata l'era delle grandi avanguardie.
Isadora era una ribelle, cresciuta nell'amore per la bellezza, nell'odio delle convenienze, della tradizione e della legge fatta dagli uomini. Pensava di esprimere con la danza i moti dell'anima, alla ricerca della naturalezza, recuperabile per lei solo abolendo tutte le regole accademiche. Così si creò una maniera di danzare istintiva, selvaggia, poggiando i piedi nudi per terra, avvolta in tuniche e bende. Voleva restituire alla danza la purezza dell'arte e sognava di far rivivere la danza greca, come la vedeva lei. Ma la sua era un'Ellde assolutamente immaginaria: vitalistica e anarchica, dove tutti danzavano, ascoltando le pulsioni dell'anima e del corpo, trascinati da una musica che non aveva niente a che vedere con quella greca. Isadora aveva fatto una regola di un ideale greco immaginario, tutto purezza ed equilibrio, un modo per sottrarsi alla crudeltà invadente della civiltà industriale. Era testarda, indomabile e si trasferì ad Atene per costruirvi un tempio dove insegnare ad un gruppo di fanciulli i cori delle "Supplici"di Eschilo, su musiche bizantine che lei, naturalmente, danzava.
La tragedia greca fu per lei un costante punto di riferimento. La danza doveva ridiventare il coro tragico e ricomporre l'unità di teatro di musica e teatro di parola, secondo la concezione wagneriana dell'opera totale. Ma la danza si collocava al centro della tragedia e delle altre arti, voleva essere tutto, tenere il posto della poesia e della musica. Neanche i costumi avevano importanza per Isadora, ma solo il corpo ed il suo movimento nello spazio. Questa è stata una delle sue tante contraddizioni: il suo ideale proclamato era la danza corale, anzi universale, ma in realtà tutta la sua danza è stata un assolo.
Ad Atene esaurì tutto il denaro e il progetto fallì.
Prima di partire, all'alba, andò a vedere per l'ultima volta il Partenone… nelle sue memorie ricorderà:"…subito mi sembrò che tutti i nostri sogni sfumassero come iridescenti bolle di sapone, e noi non eravamo, non potevamo essere come gli antichi Greci. Questo tempio di Zeus, davanti al quale io stavo, aveva rivestito in altri tempi altri colori. Io non ero, dopo tutto, che un'americana, metà scozzese, metà irlandese, più vicina forse per qualche oscura affinità ai pellirossa che non ai greci. La splendida illusione di quell'anno, passato sul suolo dell'Ellade, crollava."
Nonostante la delusione subita, l'utopia di far rinascere con l'Ellade la purezza originaria della danza continuerà a ossessionare la danzatrice.
La sua tecnica si basava su pochi principi essenziali, da cui si sarebbe sviluppata la danza libera. Non seguiva un copione, ma credeva nell'improvvisazione. La sua danza non era interpretazione della musica, ma creazione dettata dall'immedesimazione sull'onda della suggestione musicale. La danzatrice si esprimevacol suo corpo, e solo con esso, ricoperto con pochi veli che ne enfatizzavano il movimento. Ed i suoi movimenti erano elementari, naturali; le sue mani molto espressive colpirono l'attenzione del regista Stanislawskij. Non concepiva la danza come successione di passi; ma come un continuum alimentato da un centro motorio, che il ballerino deve sentir palpitare, concentrato nell'ascolto della musica e teso all'assimilazione dei suoi valori umani. La scuola del balletto aveva individuato quella molla al centro del dorso, alla base della colonna vertebrale da cui, secondo i maestri, dovrebbero partire i movimenti liberi delle braccia e delle gambe.
"Ma il risultato è di una marionetta articolata, di un movimento meccanico, artificiale, indegno dell'anima. Io cercavo, al contrario, la fonte dell'espressione spirituale."
Ed Isadora era nemica del balletto, "genere assurdo", basato su un'innaturale costrizione del corpo, che può produrre solo opere artificiali, prive di umanità e di poesia.
E quando in Russia assistette sbigottita agli esercizi alla sbarra di Anna Pavlova così scrisse: "Per tre ore rimasi seduta, al colmo dello stupore, a seguire le prodezze straordinarie della Pavlova. Pareva avesse un corpo d'acciaio. Il suo bel viso aveva i lineamenti severi di una martire. Non si fermò neppure un istante. Tutto questo esercizio pareva che avesse il compito di separare interamente i movimenti del corpo da quelli dell'anima, ma l'anima non può che soffrire, così tenuta da parte da questa rigorosa disciplina muscolare. È proprio il contrario di tutte le teorie su cui avevo fondata la mia scuola, e per le quali il corpo diventa trasparente e non è che il rivestimento dell'anima e dello spirito."
Uniche leggi dunque l'immediatezza, la naturalezza, la spontaneità, che consentono di ritrovare per lei la spiritualità dell'arte...ma questa non si può insegnare, ci si può arrivare solo lavorandoci individualmente; per questo la Duncan rimase un'isolata, non poté creare una scuola. Così, è passata alla storia soprattutto come un personaggio, col suo protagonismo, i suoi eccessi e le sue infatuazioni, come una provocazione permanente, che irrideva dal palco gli spettatori; ed ha condotto la vita come una rappresentazione, trascorsa in ogni momento con sincerità assoluta e inesauribile istrionismo. Così l'ha stroncata improvvisamente, come il finale di una tragedia greca: era a Nizza per l'ennesimo tentativo di fondare una scuola, salì sull'auto da corsa di un amico e con gesto usuale si gettò intorno al collo la sciarpa dalle lunghe frange. L'auto partì, la sciarpa si impigliò nelle ruote ed Isadora morì soffocata.
Isadora Duncan è stata soprattutto una missionaria; per lei la danza è redenzione, giustizia, libertà, vuol ricondurre gli uomini a venerare gli dei ed è sicura che col suo insegnamento contribuirà alla creazione di una generazione.
C'è una differenza fondamentale tra gli artisti riuniti intorno a Diaghilev e gli altri riformatori, che prima o contemporaneamente a lui, tentarono di ridare alla danza un significato umano e poetico. Infatti la Duncan, Delsarte, Dalcroze e Laban rifiutavano ogni regola della danza classica perché innaturale; erano convinti di poter ritrovare l'armonia profonda tra il corpo umano ed il movimento eliminando l'en dehor e le cinque posizioni. Così facendo, impoverivano irrimediabilmente l'arte della danza. Ma era il loro momento, storicamente ed esteticamente. E, soprattutto, avevano una scusante: erano venuti dall'Europa in un momento in cui i due templi della danza classica, l'Opera di Parigi e la Scala di Milano, non esprimevano niente di originale, mentre ignoravano il livello artistico raggiunto in Russia.
Quel movimento artistico e culturale, che si riconosce nella stagione dei Balletti Russi di Diaghilev, non va considerato solo un'evoluzione del balletto come rappresentazione; ma specificamente della musica in funzione di una prestabilita azione coreografica, della pittura in relazione al contributo scenografico, indispensabile in un'opera ballettistica.
Grande merito di questo personaggio imponente, come dimostra anche il suo "faccione" nelle tante caricature di Bakst, Sergej Diaghilev, è di aver dato alle arti cosiddette sorelle una più stretta collaborazione, un'unione più intima.
Egli sentì che il teatro di danza non poteva continuare nel virtuosismo macchinoso, nel quale l'aveva relegato l'ultimo scorcio del XIX secolo, e propose qualcosa di nuovo, di vivo, di significante.
Proveniva dall'Oriente, come la maggior parte degli artisti di cui si circondò, ma portò questa carica di novità in Europa, mentre il balletto sovietico rimaneva nelle sue posizioni di rigido conservatorismo, con espressioni di tecnica ineccepibile.
Un impresario fu detto, commercialmente non abbastanza avveduto, un creatore certamente no, iniziatore attivo di un movimento che doveva rinnovare il teatro, inserendosi nella coscienza viva dell'artista moderno, un grande edonista, comunque. Partì dalla pittura e alla pittura ritornò.
Fece il suo grande esordio nella vita artistica con la rivista "Mir Iskusstva" (Il Mondo dell'Arte) che diresse dal 1899 al 1905 con il contributo di grandi artisti, che l'avrebbero fiancheggiato negli allestimenti dei Balletti Russi, esattamente dieci anni dopo.
Il 19 maggio 1909 al Theatre du Chatelet di Parigi si alzò il sipario e fu subito evento: si concluse un'epoca e ne cominciò un'altra.
Diaghillev aveva innanzi tutto strappato il balletto alle corti e l'aveva trasferito da San Pietroburgo a Parigi, esponendolo al clima ardente delle polemiche. Sua era stata l'idea di mettere insieme artisti di rilievo internazionale: musicisti come Stavinsky, Ravel, Strass, Prokofiev; pittori come Ricasso, Bakst, Benois, De Chirico, Balla, Matisse; ballerini come la Pavlova, la Karsavina, Nijinkij e la Rubistein; ed ancora i coreografi Fokine, Massine e Balanchine. Formare cioè un gruppo qualificato, al fine di una creazione unitaria, nella quale confluissero arti con dignità pari, anche se con funzioni diverse. Siamo nell'ambito del teatro totale, in quanto collaborazione stretta e determinante delle arti concorrenti all'unità dello spettacolo, per risollevare un genere teatrale decaduto.
Questa esperienza si svolse in due fasi, una antecedente la prima Guerra Mondiale, di componente eminentemente russa, l'altra del dopoguerra, in cui Diaghilev sentì la necessità di farvi confluire artisti di varia provenienza, non potendo restare indifferente al clima di rivoluzioni delle avanguardie. Potremmo identificarne una terza, sotto la direzione del colonnello de Basil, fase in cui la danza tendeva a identificarsi con il circo, secondo un gusto propriamente parigino e più direttamente a contatto con tendenze di music-hall.
Diaghilev si servì di musiche non scritte appositamente per la danza, lungi questo da far sì che l'una o l'altra arte facesse da egemone. Anche la Duncan si era espressa su musiche classiche e sinfoniche ed il suo contributo non fu assolutamente irrilevante.
Il dubbio mondo greco di Isadora confluì nella scenografia per la messa in scena di "Dafni e Cloe" di Fokine, coreografo per gli allestimenti dei Balletti Russi nelle tre stagioni successive dal 1909 al 1911 e inventore del ballo moderno.
D'intesa con Diaghilev, Fokine contribuì in maniera determinante alla definizione della linea da seguire nell'allestimento degli spettacoli, applicando al balletto i metodi introdotti nella regia da Stanislavskij, con cui ci sono rapporti documentati. Di matrice nettamente stanislavskijana l'avversione di Fokine al divismo, il ridimensionamento quindi, dell'etoil, con l'introduzione del corpo di ballo non più come semplice fondale di scena.
Diaghilev avrebbe detto: "L'influenza della Duncan su Fokine è stata il fondamento stesso di tutta la sua attività creatrice."
Ma dobbiamo immediatamente ridimensionare l'affermazione, se solo pensiamo al riferimento piuttosto esteriore che la danzatrice fece alla tragedia greca a dispetto delle sue creazioni solistiche; mentre preoccupazione costante di Fokine fu la creazione di un'opera drammatica unitaria. Egli ha portato allo sviluppo dell'arte coreografica così come l'intendiamo noi oggi.
È proprio Fokine a definire i principi del nuovo balletto, che possiamo così riassumere: - non adottare combinazioni di passi di danza fissi; ma creare in ogni composizione una nuova forma, corrispondente allo stile e adatta al tempo e al luogo dell'azione trattata; danza e musica devono concorrere all'espressione dell'azione drammatica; - la mimica deve estendersi a tutto il corpo; - il principio di espressività si estende dal volto al corpo e dal singolo si passa ad un gruppo di corpi e una complessa danza d'insieme; - alleanza della danza con le altre arti, sul piano di pari dignità e con piena libertà tanto del musicista quanto dello scenografo.
Dall'allestimento de "Les Sylphides", estremo prodotto del Romanticismo per i toni crepuscolari e l'impressionismo, Fokine aprì la strada alle grandi sinfonie coreografiche con "Petrushka", con cui dimostrò le possibilità del balletto di farsi espressione delle più complesse sensazioni umane, compiendo un notevole passo in avanti per quella popolazione di marionette e automi che aveva animato sino allora la scena. In mezzo c'erano stati "Une nuit d'Egypte" diventato nel 1909 "Cleopatre" e "Sheherazade" nel 1910, balletti russi per eccellenza, che recavano il colore e il preziosismo dell'Oriente, con una forte carica sensuale.
Negli ultimi anni, Fokine ebbe un indebolimento dello slancio creativo, come se avesse costretto il suo sforzo titanico ad un breve, intensissimo periodo.
Le successive stagioni furono affidate a Massine, coreografo-drammaturgo, in quanto aveva esordito con l'arte teatrale e l'incontro con Diaghilev fu poi per lui decisivo, anche se la drammaturgia presiederà tutta la sua opera. Grande ballerino di carattere, di impostazione accademica e straordinaria immedesimazione espressiva, conciliò abilità tecnica e vibrante temperamento. Nei suoi allestimenti, non rinunciò mai a varietà di temi e illustrazionemolto concreta, adattando il suo stile dalla commedia dell'arte al mistero religioso, dal folclore spagnolo all'operetta, dal balletto sinfonico all'opera.
È d'obbligo ora ricordare Nijinskij, che ha restituito un nuovo prestigio alla figura del ballerino, messa in ombra durante il periodo romantico dell'avvento delle virtuose.
E nel corso della prima stagione dei balletti russi incantò tutti per la straordinario potere di elevazione, per la foga dionisiaca, per l'incredibile magnetismo e il fascino orientale, con la sveltezza dei giri nervosi commista alla morbida grazia sessuale.
È passato alla storia come lo schiavo di Sheherazade e si accinse anche alla coreografia, sotto la guida silente di Diaghilev, nella messa in scena di tre opere che, seppur imperfette, segnarono il passaggio ad un'epoca moderna, perché egli aveva inteso la, necessità di liberarsi dell'accademismo e si richiamò ad una plasticità neo-ellenica.
"Le Sacre du printemps" e, in misura minore, "L'Apres midi d'un faune" costituiscono l'esperimento più avanzato del primo Novecento, teso a risolvere, all'internodel sistema della danza accademica, le esigenze poste dal movimento di danza libera, attraverso il filtro delle teorie di Jaques-Dalcroze.
Ne "Le Sacre du printemps" pare evidente che Nijinskij scompose i ritmi di Stravinsky; e l'asprezza della musica, come la soluzione irregolare dei ritmi, non poteva che suggerire posizioni contorte, flessioni, rovesciamenti, con una logica che non aveva niente a che vedere con i modi delle danza classica.
"L'en dehor è ripudiato, i piedi sono pesantemente poggiati per terra, con le punte rivolte indietro; le braccia piegate con angoli decisi e non arrotondate; i gruppi creati per contrapposizioni nette e asimmetriche."
"La coreografia illustrava la partitura nella maniera più sorprendente e precisa. Ogni ritmo era danzato. Per il ritmo e per il ritmo soltanto la danza si identifica con la musica." (Romola Nijinskij)
Assistendo alle lezioni al Conservatorio, Dalcroze si accorse che i suoi allievi ripetevano macchinosamente i loro esercizi, ma non traducevano la musica in emozioni sensibili. Capì che una serie di ricerche sul solfeggio avrebbero potuto donar loro quell'orecchio interiore, col quale avrebbero reso la musica una disciplina vivente, riappropriandosi della coscienza del suono.
Ed ecco l'intuizione: "Osservando i suoi allievi, Jaques Dalcroze trova subito quel che cerca. Li vede: il piede nervoso che batte il suolo, la testa che freme, vibrando al suono, seguendo un crescendo, punteggiando gli accenti. I loro compagni li ascoltano, raccolti: trasaliscono, si scuotono, dondolano, fremono… lasciano che la musica li penetri… è tutto lì. Sentono, reagiscono, divengono essi stessi degli strumenti. Sono loro lo strumento."
Il corpo stesso è lo strumento, un mezzo risonatore attraverso cui i fenomeni del tempo si traducono in fenomeni dello spazio. È questo il senso ritmico musicale, risorsa ignorata del nostro essere, che si limita al livello cerebrale, dell'inconscio. Ma si deve essere penetrati dalla rappresentazione del ritmo, riflettendone l'immagine con tutti i muscoli del corpo.
La coscienza del ritmo è appunto la facoltà di tradurre gli impulsi dell'emozione e del pensiero in movimenti fisici, con il necessario apporto di tutti i muscoli, volontari e involontari.
Come non cogliere le relazioni tra queste intuizioni e le ricerche che Artaud compiva sulrespiro?
Dunque, il corpo umano è il mezzo espressivo della più pura emozione, che non resta statica, ma si traduce in movimento: ecco la relazione con la danza!
Tutta la sua ricerca, che ebbe come costante riferimento i due concetti di arte ed emozione, partì dalla musica, che sembra non dirci mai niente, perché non rappresenta, ma che esprime sempre qualcosa simbolizzando.
La proprietà della musica è, prima di tutto, provocare nell'anima dell'uomo un bisogno d'immaginazione e di realizzazione. La musica è nata in noi da una necessità assoluta di uscire da noi stessi, di esteriorizzare le nostre aspirazioni, di donare le ali a nostri desideri mal definiti. È una forza psichica considerevole; per il suo potere d'eccitazione e di regolarizzazione può armonizzare tutte le nostre funzioni.
Dalcroze voleva che la musica, passando attraverso l'orecchio, arrivasse fino all'anima per infiammarla.
"Il senso della musica non può essere che la sua capacità di rapirci."(Pradines)
Ed i greci avevano riunito in una trinità Musica, Danza e Poesia, tutte e tre dominate dal Ritmo, con il suo flusso vitale. Il tempo è passato, le arti si sono dissociate ed il nostro corpo è diventato un mezzo alquanto rozzo, grossolano e poco garbato di espressione. Lo studio di Dalcroze si è tutto indirizzato alla ricerca delle cause di questi difetti di espressione, di queste disarmonie. Ha scoperto l'aritmia, uno stato generale di disarmonia, che proviene da una mancanza di coordinazione tra la concezione del movimento e la sua realizzazione attraverso i muscoli incaricati, e che quindi dipende da un funzionamento difettoso del sistema nervoso. Questa inquietudine generale può provocare mancanza di fiducia nelle proprie forze, paura di se stessi, incapacità di concentrarsi.
Ecco che lo studio di Dalcroze diventa educazione, tesa al recupero dello stato di equilibrio infantile e della connessione tra corpo e anima. Parliamo dell'euritmia, stato naturale o provocato attraverso un lungo apprendistato: - innanzi tutto bisogna imparare a conoscere se stessi, imparare ad ascoltarsi, ad assimilare dei ritmi attraverso la ripetizione; - liberarsi di ogni inibizione, esprimendosi attraverso una seriedi automatismi; - bisogna abituarsi alla logica del minimo sforzo, con l'abolizione dei movimenti inutili e l'alternanza di tensione e rilassamento, che permette di rafforzare la capacità di concentrarsi.
Si arriva così ad una liberazione di energia, che permette di abbandonarsi all'immaginazione, facoltà riproduttrice e creatrice.
La ritmica mira dunque a tre fini particolari: sviluppare il sentimento musicale, il sentimento dell'ordine e dell'equilibrio, le facoltà immaginative.
La vicenda dei Balletti Russi ha dato una svolta decisiva allo sviluppo dell'arte tutta, in tutte le sue componenti, perché ha accolto esperienze molteplici, personalità stravaganti, grandi talenti, che con la loro genialità ed insieme la loro capacità creatrice, hanno dato all'opera di danza un nuovo slancio fantastico e immaginifico.
Leòn Bakst ha influito in maniera determinante alla definizione della nuova forma artistica che aspirava a dotare la poesia, la pittura, la musica di una visione e di una vitalità nuove.
Egli iniziò a lavorare come illustratore professionista, estraneo alle innovazioni che si compivano nel campo della pittura, finché non abbandonò il realismo per un approccio più individuale ed evocativo, che coincideva con l'orientamento del circolo Il Mondo dell'Arte, in cui confluì, in un periodo di eccezionale innovazione artistica. Anche se la concezione generale della rivista restò di Diaghilev, Bakstne curò l'organizzazione e realizzò molte decorazioni grafiche, compreso il logo, un'aquila su di un picco innevato su sfondo di luna e stelle, allegoria che così spiegherà: "Il Mondo dell'Arte è più alto di ogni altra cosa terrena, è prossimo alle stelle…"
Momento decisivo per la sua carriera fu il viaggio in Grecia compiuto nel 1907 ed emblematico del suo modo di concepire l'opera d'arte fu ciò che accadde: si arrampicò sul frontone del tempio di Zeus, con un atto impulsivo che tradiva la sua percezione dell'arte come esperienza essenzialmente tattile, la sua manualità, la sua capacità di tradurre il sensuale e l'interiore in sorprendenti composizioni.
Bakst era ossessionato dall'antica Grecia, ed il suo viaggio fu insieme una rivelazione e una conferma, perché aveva già intuito che quel mondo non era in bianco e nero come ritratto nei manuali; ma che era un mondo dai colori brillanti.
Il colore diventò così il principio delle tante scenografie che realizzò per gli allestimenti dei Balletti russi. La sua innovazione consistette nell'individuare una banda di colore per ogni allestimento e di seguirla fino in fondo, con approccio costante, basato sull'uso simbolico del colore stesso.
I principi della sua arte si erano già manifestati con la creazione dei costumi per "Cleopatre", che dovevano adattarsi al corpo delle ballerine e prolungarne i movimenti con veli; ma, soprattutto, "Cleopatre" rivelava la sua padronanza delle combinazioni cromatiche e l'uso dei cinque colori primari in armonie infinite, così come la sua giusta intuizione che la nota di stile va trovata nella coerenza e nell'uniformità. Il tutto va tenuto insieme da un formidabile disegno e da una linea precisa. Questa atmosfera dominante fluiva ininterrottamente dall'inizio alla fine, di modo che il suo contributo al balletto era visto come la linea e il colore essenziali di un movimento ritmico. Forniva così l'elemento di connessione per tutta una serie di ritmi.
Le scene di "Sheherazade" suggerivano direttamente un che di sensuale ed erotico, erano piene di blu, di verde e di rossi in contrasto tra loro, suggerendo uno scontro titanico tra i sensi dell'occhio e dell'orecchio.
Era affascinato dalla carica sensuale che emanava il mondo orientale, e realizzò un'eccezionale fusione di Oriente ed Occidente. Bakst non ha mai temuto di osare, di sembrare appariscente, esuberante, ardito nell'uso del colore; ma non è mai scaduto nel kitsch.
Aveva capito che le scene, i costumi e gli artisti avevano uguale importanza nello spettacolo e concepiva la scena tridimensionale, alla maniera di Klimt, dilatandola attraverso simmetrie occulte, ottica spaziale e profondità della scena, dentro cui lo spettatore doveva entrare per recuperare il passato in una dimensione onirica. Si compiva così una rivoluzione dello spazio scenico, che doveva avere significazione simbolica, essere rappresentazione di un viaggio dello spettatore verso la verginità antica. Strumenti essenziali la luce, un'orgia di colori, giochi di ombre e penombre, e la nuova posizione che occupava sulla scena il corpo, inteso come entità dinamica, che doveva essere esposta e amplificata nei movimenti, non racchiusa e nascosta. L'eccesso dei suoi colori e il rigoglio delle sue forme sembrano trarre la loro forza dal desiderio consumato ma non appagato, e da un'epoca in rapido declino, condannata all'imminente distruzione.
Era ossessionato dal desiderio; ma seppe temperarlo con la ragione.
Caterina Ruggi d'Aragona