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Andrea Chénier: quando il mondo non poteva più cantare

 

Il barone Alberto Franchetti è noto non solo per aver composto un'opera veramente oceanica, il Cristoforo Colombo, ma anche per aver inopinatamente ceduto i diritti su alcuni soggetti che si era accaparrato, rinunciando a musicarli: Chénier e Tosca. Il primo, tratto da un romanzo di Joseph Méry (librettista del Don Carlos verdiano), venne lasciato nell'estate del 1894 al ventisettenne Giordano, disperato dopo l'insuccesso di Regina Diaz. Forse il soggetto prevedeva pochi interventi corali, e senza cori polifonici Franchetti non si scaldava. Infatti, anche se nella vicenda, ambientata all'epoca della Rivoluzione francese, le masse popolari sono ben presenti e fanno subito irruzione nel bel mezzo della festa organizzata da una Contessa che potrebbe essere quella di Paolo Pietrangeli, alla fin fine i personaggi di spicco sono solamente tre: Andrea, il poeta; Maddalena, la giovane aristocratica perseguitata; Gérard, l'ex domestico divenuto uomo politico.
Attorno a questi, una miriade di personaggi minori e di comparse, chiamati a incarnare nientemeno che Dumas, Robespierre, David, Saint-Just, Fouquier-Tinville, Barras e altri ancora. Siccome la storia non la fanno solo i "grandi', compare anche una folla di personaggi inventati di sana pianta: contesse, abati, maestri di musica, cameriere che fanno carriera e diventano "meravigliose" (parenti delle sigaraie di Carmen), sanculotti e altre macchiette eccezionali, come quel cancelliere del Tribunale Rivoluzionario descritto come "un piccolo ometto sudicio che entra tenendo sotto braccio un gran fascio di carte (…) impassibile e silenzioso": una Moira degradata, un messaggero di morte.
"Quello dello Chénier è lavoro lungo per le ricerche storiche", scrive Luigi Illica al compositore: infatti il librettista consulta una serie notevole di fonti per rendere il colore della vicenda, ad esempio i due libri dei fratelli de Goncourt, ricchi di annotazioni di costume sulla vita francese nell'epoca del Terrore e del Direttorio. Il suo testo è pieno di didascalie narrative, nelle quali la voce dello scrittore interviene in prima persona, come in un romanzo storico. Ne risulta una visione doppia del periodo rappresentato: tutta la prima parte è ricca di bordate anticlericali (spesso tagliate da Giordano o dall'editore Sonzogno) e spunti libertari, mentre la seconda dipinge la dittatura di Robespierre in un'ottica revisionista, quasi sempre dalla prospettiva del domestico letterato, studioso di Rousseau ("Quel Gérard… l'ha rovinato il leggere!", dice la Contessa), che ha visto i suoi ideali traditi e vive la gestione della politica sprofondato nella routine e nella delusione. Sposando il suo punto di osservazione illividito, il libretto insiste sulla ferocia e sullo squallore dei popolani, dalle pescivendole ciarliere e incattivite che sembrano uscite dal Ventre di Parigi di Zola, ai sanculotti unti e tabaccosi come quelli notati dall'intrepida protagonista de La nobildonna e il duca di Eric Rohmer.
Illica offre spunti per inserire effetti sonori che danno il senso della storia che accade: tamburi, marce di soldati, canti rivoluzionari a mo' di siparietto fra una scena pubblica e una privata, per distanziare il corso degli eventi e dare prospettiva all'azione principale: "Ça ira!", Carmagnola e, ovviamente, Marsigliese. Inoltre, sceglie per i suoi personaggi due modalità espressive ben consone all'epoca rappresentata: la perorazione e la confessione. Alcuni personaggi si raccontano in pubblico, altri arringano la folla con discorsi improvvisati. C'è chi racconta fatti (l'Abate, Mathieu), chi il proprio vissuto (Chénier alle dame nel I atto, a Roucher nel II; Maddalena a Gérard e viceversa, nel III), chi declama orazioni (Chénier e Gérard). Una grande furia espositiva: dopotutto l'uomo moderno è una bestia da confessione, ha scritto Foucault.
Nei racconti privati, chi riesce meglio a commuovere l'interlocutore è sempre la donna, ottima e scaltra narratrice della propria lacrimevole storia. Invece le perorazioni sono di competenza maschile: una specializzazione del maschile in musica (Chénier, Gérard, perfino il sanculotto Mathieu in forma parodica: è un nuovo Fra' Melitone). In questi momenti le voci maschili assumono toni tribunizi: un declamato privo di spicco melodico, la stessa nota ribattuta, l'arpeggio dell'accordo perfetto a mo' di fanfara vocale, cadenze ben piazzate alla parola prediletta, "patria". A Chénier però è concessa una dimensione musicalmente più ricca, quella della voce che disegna una vera e propria melodia stagliandosi sull'accompagnamento orchestrale. È la modalità di comunicazione operistica più tradizionale, ma in quest'opera sembra un privilegio accordato solo a tale personaggio ed esteso con alcune limitazioni anche a Gérard e Maddalena.
Quando impiega tale modalità espressiva, egli fa il poeta: ad esempio nella difesa in tribunale ("Passa la vita mia") e nel canto dei versi buttati giù in fretta sulla carta prima di essere ghigliottinato ("Come un bel dì di maggio"), per i quali Illica ha rielaborato una poesia del "vero" Chénier ("Comme un dernier rayon", Jambes VIII). Tale modalità (il poeta che fa il suo mestiere - e cioè, nel linguaggio del melodramma, "canta") viene estesa da Giordano a tutti gli interventi del protagonista, che anche senza citare i propri versi sforna poesia e la riversa addosso a quelli che incontra.
Ciò accade in un contesto privo di melos: gli altri personaggi "non cantano". Si limitano a declamare con slancio, mentre le belle melodie a effetto Giordano le caccia in orchestra. Il mondo non sa più cantare: solo Chénier è capace di guidare e domare il discorso strumentale, assoggettandolo alla sua voce.
Quando appare in scena per la prima volta, provocato dalla capricciosa contessina, propina al pubblico aristocratico un infervorato Improvviso, riuscendo così a contagiare due ascoltatori particolarmente sensibili al suo canto: la ragazza, Maddalena, e il servitore, Gérard, che si innamorano della sua poesia. Il canto viene sublimato dal servitore, divenuto uomo politico, nelle idee di libertà e uguaglianza, che si rivelano illusioni, e può essere recuperato solo attraverso il ricordo ("La coscienza nei cuori ridestar de le genti!…", la melodia lunga lunga nel monologo dell'atto III). Anche la donna impara dal poeta a utilizzare quel linguaggio, nel corso del duetto notturno del II atto ("Ora soave"), durante il quale avviene la sua emancipazione vocale: d'ora in avanti sarà in grado anche lei di "cantare", ma sempre collegando tale mezzo espressivo all'idea dell'uomo che gliel'ha insegnato ("e dice: Vivi ancora!", nel racconto dell'atto III). Questi, da parte sua, continua a impiegarlo un po' per tutti: le donne, il pubblico e i giurati del tribunale, l'amico Roucher in prigione.
La storia di Giordano è quindi un po' diversa da quella imbastita dal suo librettista: è la storia dell'impossibilità del canto nobile e tradizionale nell'opera moderna, in cui tutti gli altri personaggi, non contagiati dalle doti del poeta, possono a malapena declamare su un motivo melodico ben squadrato in orchestra, e costeggiarlo a tratti, ma spesso sono confinati al recitativo, al grido disarticolato (la folla), alla dimensione dimessa di un frammento melodico che muore sul nascere (le mercantine), al canto fasullo e sdolcinato (le pastorelle), al canto popolare rivoluzionario che se è in bocca a Mathieu è veramente in bocca a tutti.

 

Marco Emanuele (da www.sistemamusica.it)